LASCIA TUTTO, E SEGUITI! (F. Battiato) Dove tutto è enigma (storia, natura, cosmo) la certezza dell'insolubilità pone un invisibile seme di speranza. (Guido Ceronetti)

di-segno di Sacrilegio Tempesta
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pARTICOLARE DI "Autunno", quadro di Diogene senza l'anima?. Foto di Sacrilegio Tempesta.
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lunedì 8 aprile 2013
La città, invisibile, informe, inodore, insapore, insonorizzata, incolore, inesistente, vuota, nulleggiante, trasparente, minima, automatica, muta, microscopica, titanica, ciclopica, gigantiforme, informe, trascendente, accecante, immobile, inutile. "E allora?" "Staremo a vedere."
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venerdì 22 marzo 2013
W. Herzog: Dove sognano le Formiche Verdi-
Un film sul Silenzio.
Il Silenzio della Fine.
Il silenzio del Deserto, della Terra spaccata dalla nostra dinamite, dai nostri ascensori, dai nostri supermercati, dai nostri cellulari, dal nostro rumore, dalle nostre chiacchere inutili.
Il Silenzio della Terra, che si prepara a deflagrare per annientare i suoi carnefici.
Il Silenzio delle Formiche Verdi, che hanno smesso di Sognare, e, sveglie, volano a sciami enormi, giganteschi, oscurando il cielo, per distruggerci, per distruggere chi ha ferito mortalmente la Terra e dissacrato i suoi Luoghi Sacri.
Un margine, è lasciato, per sognare, la possibilità, che oltre l'orizzonte, oltre la Fine, nel Silenzio, nuovi Inizi - stanno incubando nella Terra del Sogno.
Ma ovunque regna e regnerà il Silenzio.
Le chiacchere non bastano più a coprire l'assordante frastuono del suo enigma, quel frastuono che riempie di terrore di disperazione e di abisso i volti degli aborigeni australiani in questo film, volti scavati nella roccia, nella terra, nell'orrore di chi questo Abisso lo percepisce chiaramente, perchè è da sempre connesso con la terra, le radici della Visione sprofondate nell'Anima del Deserto.
Sguardi persi nella Visione dell'Apocalissi.
Guardiani del Tempio.
Immobili seduti a guardare in silenzio la Fine che avanza, cercando di difendere lo Spazio Sacro, la Terra Sacra fuori e dentro di loro-
Guardiani inerti, inermi, con le mani incatenate-
-O forse non tanto-
Guardiani che sapranno difendere il Cuore della Terra, il Sogno, attraversando l'Apocalissi verso la terra oltre l'orizzonte dove sono volate le Formiche Verdi.
-traghettatori, forse-
-Forse solo apparentemente impotenti-
-
-Intanto, le parole si inceppano, gli ascensori si fermano, gli orologi digitali cominciano a squillare all'improvviso, la Macchina si spacca, gli ingranaggi vanno in tilt, il sistema economico impazzisce, l'Automa collassa, e appare sempre più evidente che ogni parola, ogni discorso, ogni azione sono completamente inutili e fuori luogo, nel moltiplicarsi fragoroso del Silenzio che si approssima.
"Ma allora è tutto inutile?" commenta a fine film Sacrilegio.
Dopo un po' di titubazione, nell'inquietudine estrema che lascia questo film, con poc voglia di parlare, di dire una cosa qualsiasi, provo a mormorare il detto ebraico: "Chi salva una vita salva il mondo intero."
-Risuona incerto questo filo di speranza.
Ma forse, nel prenderci cura di un cane, una persona o una pianta, nel coltivare piccoli Sogni con la nostra piccola, attenta, microscopica passione, possiamo - io spero - farci simili ai Guardiani delle Formiche Verdi, inamovibili moniti sacri con il cuore sprofondato nel Cuore della Terra. Custodi esili. Sacerdoti minimi. Silenziosi strambi sacerdoti del piccolo.
"Anche per Dostoevskij [oltre che per Nietzsche] la prognosi è ottimistica; egli non vede nel nichilismo la fase ultima, mortale, ma anzi lo ritiene guaribile e, precisamente, guaribile attraverso il dolore. Il destino di Raskol'nikov fa vedere, prefigurandola, la grande trasformazione che coinvolgerà milioni di uomini. Anche qui si ha l'impressione che il nichilismo sia concepito come fase necessaria all'interno di un movimento orientato a scopi ben precisi.
(...)
L'ottimismo, come anche il pessimismo, di questa risposta, si abbarbica, è vero, alle prove, ma non si fonda su di esse. Si tratta di ordini diversi; ciò che conferisce forza di persuasione all'ottimismo è la profondità, alla prova è la chiarezza. L'ottimismo può raggiungere strati in cui il futuro, ancora assopito, viene fecondato. In tal caso lo si incontra come un sapere che raggiunge profondità maggiori che non la forza dei fatti - che addirittura può suscitarli. Il suo fulcro è più nel carattere che nel mondo. Un ottimismo fondato su queste basi va apprezzato in se stesso, dal momento che proprio la volontà la speranza e la stessa prospettiva futura devono dare a chi lo professa la forza di resistere nel mutevole corso della storia e dei suoi pericoli. Molte cose dipendono da questo." (E. Junger, Oltre la linea [scritto del 1950], in E. Junger - M. Heidegger, Oltre la linea. Sottolineatura in corsivo mia.)
P.S.: Chiedo scusa per essermi permesso di scrivere questo breve articolo nella quasi totale ignoranza sulla cultura degli Aborigeni d'Australia.
Chiedo scusa se, come è probabile, le mie parole non sono coerenti con queste Tradizioni.
Questo articolo vuole solo esprimere le mie suggestioni emotivo-analogiche di fronte alla visione di questo film, che comunque penso abbia anche un valore e un linguaggio universali.
Il Silenzio della Fine.
Il silenzio del Deserto, della Terra spaccata dalla nostra dinamite, dai nostri ascensori, dai nostri supermercati, dai nostri cellulari, dal nostro rumore, dalle nostre chiacchere inutili.
Il Silenzio della Terra, che si prepara a deflagrare per annientare i suoi carnefici.
Il Silenzio delle Formiche Verdi, che hanno smesso di Sognare, e, sveglie, volano a sciami enormi, giganteschi, oscurando il cielo, per distruggerci, per distruggere chi ha ferito mortalmente la Terra e dissacrato i suoi Luoghi Sacri.
Un margine, è lasciato, per sognare, la possibilità, che oltre l'orizzonte, oltre la Fine, nel Silenzio, nuovi Inizi - stanno incubando nella Terra del Sogno.
Ma ovunque regna e regnerà il Silenzio.
Le chiacchere non bastano più a coprire l'assordante frastuono del suo enigma, quel frastuono che riempie di terrore di disperazione e di abisso i volti degli aborigeni australiani in questo film, volti scavati nella roccia, nella terra, nell'orrore di chi questo Abisso lo percepisce chiaramente, perchè è da sempre connesso con la terra, le radici della Visione sprofondate nell'Anima del Deserto.
Sguardi persi nella Visione dell'Apocalissi.
Guardiani del Tempio.
Immobili seduti a guardare in silenzio la Fine che avanza, cercando di difendere lo Spazio Sacro, la Terra Sacra fuori e dentro di loro-
Guardiani inerti, inermi, con le mani incatenate-
-O forse non tanto-
Guardiani che sapranno difendere il Cuore della Terra, il Sogno, attraversando l'Apocalissi verso la terra oltre l'orizzonte dove sono volate le Formiche Verdi.
-traghettatori, forse-
-Forse solo apparentemente impotenti-
-
-Intanto, le parole si inceppano, gli ascensori si fermano, gli orologi digitali cominciano a squillare all'improvviso, la Macchina si spacca, gli ingranaggi vanno in tilt, il sistema economico impazzisce, l'Automa collassa, e appare sempre più evidente che ogni parola, ogni discorso, ogni azione sono completamente inutili e fuori luogo, nel moltiplicarsi fragoroso del Silenzio che si approssima.
"Ma allora è tutto inutile?" commenta a fine film Sacrilegio.
Dopo un po' di titubazione, nell'inquietudine estrema che lascia questo film, con poc voglia di parlare, di dire una cosa qualsiasi, provo a mormorare il detto ebraico: "Chi salva una vita salva il mondo intero."
-Risuona incerto questo filo di speranza.
Ma forse, nel prenderci cura di un cane, una persona o una pianta, nel coltivare piccoli Sogni con la nostra piccola, attenta, microscopica passione, possiamo - io spero - farci simili ai Guardiani delle Formiche Verdi, inamovibili moniti sacri con il cuore sprofondato nel Cuore della Terra. Custodi esili. Sacerdoti minimi. Silenziosi strambi sacerdoti del piccolo.
"Anche per Dostoevskij [oltre che per Nietzsche] la prognosi è ottimistica; egli non vede nel nichilismo la fase ultima, mortale, ma anzi lo ritiene guaribile e, precisamente, guaribile attraverso il dolore. Il destino di Raskol'nikov fa vedere, prefigurandola, la grande trasformazione che coinvolgerà milioni di uomini. Anche qui si ha l'impressione che il nichilismo sia concepito come fase necessaria all'interno di un movimento orientato a scopi ben precisi.
(...)
L'ottimismo, come anche il pessimismo, di questa risposta, si abbarbica, è vero, alle prove, ma non si fonda su di esse. Si tratta di ordini diversi; ciò che conferisce forza di persuasione all'ottimismo è la profondità, alla prova è la chiarezza. L'ottimismo può raggiungere strati in cui il futuro, ancora assopito, viene fecondato. In tal caso lo si incontra come un sapere che raggiunge profondità maggiori che non la forza dei fatti - che addirittura può suscitarli. Il suo fulcro è più nel carattere che nel mondo. Un ottimismo fondato su queste basi va apprezzato in se stesso, dal momento che proprio la volontà la speranza e la stessa prospettiva futura devono dare a chi lo professa la forza di resistere nel mutevole corso della storia e dei suoi pericoli. Molte cose dipendono da questo." (E. Junger, Oltre la linea [scritto del 1950], in E. Junger - M. Heidegger, Oltre la linea. Sottolineatura in corsivo mia.)
P.S.: Chiedo scusa per essermi permesso di scrivere questo breve articolo nella quasi totale ignoranza sulla cultura degli Aborigeni d'Australia.
Chiedo scusa se, come è probabile, le mie parole non sono coerenti con queste Tradizioni.
Questo articolo vuole solo esprimere le mie suggestioni emotivo-analogiche di fronte alla visione di questo film, che comunque penso abbia anche un valore e un linguaggio universali.
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mercoledì 20 febbraio 2013
"Lia", un documentario di Alberto Grifi.
La prima volta che vidi questo documentario, anni fa, mi venne da scoppiare a piangere. La stessa cosa mi è successa adesso.
http://www.youtube.com/watch?v=76v4nlo8Ddk
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martedì 19 febbraio 2013
martedì 8 gennaio 2013
"La Bottega dei Suicidi" e l'eresia dell'entusiasmo di vivere.
"La bottega dei suicidi", ultimo film di Patrice Leconte - e suo primo film d'animazione - è chiaramente un film jodorowskyano.
Non certo perché assomigli ai film di Alejandro Jodorowsky, ma perché è una chiara, superba esemplificazione delle sue teorie psicologiche.
In una metropoli contemporanea (Parigi? Milano?) tutto ormai è grigio, spento, senza senso: i suoi abitanti, tristi larve svuotate di esseri umani, si trascinano stancamente per le sue strade buie senza un reale motivo, senza uno straccio di sogno o entusiasmo, senza nessuna voglia di vivere o respirare, i volti incavati segnati da paure prive ormai di un oggetto, esili fantocci sconfitti schiacciati da fantasmi senza nome, trafitti da una rassegnazione esausta, oltre il nichilismo verso il semplice incenerimento di qualsiasi desiderio o slancio o sussulto anche casuale di vita, verso la putrefazione dell'anima, il completo oblio di un qualsiasi ricordo di un lontano senso.
I suicidi aumentano ogni giorno.
Ma perfino suicidarsi, in questa cupa Metropoli del Dover-Essere, del Vietato Essere, è vietato.
O, perlomeno, suicidarsi in pubblico. L'Apparenza - Ciò Conta - dev'essere salvaguardata, e chi si suicida per strada - molti, moltissimi - ricevono come unica reazione dell'apparato pubblico una multa ficcata a forza nella bocca del suicida da una volante subito accorsa - e che subito si dilegua.
Per risolvere i problemi di questi cittadini stanchi di vivere ma che giustamente preferirebbero evitare multe postume, né certo vorrebbero intralciare il traffico, c'è la Bottega dei Suicidi: un negozio fornitissimo, assolutamente legale, anzi fornito di regolare licenza, dove si può trovare qualsiasi strumento - dai più ordinari ai più originali - per liberarsi definitivamente di una vita percepita ormai come un peso inutile - ma rispettando pur sempre doverosamente il comune senso del pudore, ponendo fine ai propri giorni nel proprio privato alveo, nascosto agli occhi di chi, pur condividendo magari l'assunto filosofico di base del suicida, potrebbe trovare sconveniente una morte violenta in pubblico, sotto un'auto o giù da un ponte. La vita non ha senso, ma le forme, almeno quelle, per Dio! - non vanno assolutamente dimenticate - siamo o non siamo pur sempre un continente civile???!?
I clienti si aggirano attoniti, incuriositi, affascinati fra le moltissime chincaglierie letali del fortunatissimo esercizio, molto alla moda. Alcuni acquistano la prima cosa che gli viene proposta dai gestori, tutto gli sembra indifferente - altri invece sembrano affascinati dall'abilità dialettico-commerciale della coppia proprietaria dell'attività, e seguono con interesse e quasi con occhi che brillano i loro discorsi sul "veleno, che è una scelta molto femminile - tutto sommato assomiglia a un profumo, no?" o sulla katana giapponese che "è molto virile", sull'estetica dei prodotti, alcuni incisi a mano, sull'essere "all'ultima moda" di alcune soluzioni. L'apparenza e il consumismo seguono le persone fino al loro salto nel buio. Tutti poi si preoccupano del prezzo: "Mah, mi sembra un po' caro..." ma sono rincuorati dallo slogan "Trapassati o rimborsati!".
Ma ecco l'elemento psicogenalogico, o jodorowskyano.
Cosa meglio di una famiglia, una coppia che, anche con l'aiuto dei figli, un bambino e una bambina, gestisce un'attività il cui core-business è la negazione della vita, la disperazione, e fa questo perché segue una tradizione familiare inaugurata da un bisnonno che aprì il negozio nell'ottocento, venerato come una specie di santo - una famiglia che ha fatto dell'assioma che la vita è triste, disperata, senza senso non solo il fulcro, il centro dell'ideologia familiare, della religione familiare - ma addirittura lo scopo di tutta la vita, anche professionale, un assunto da promuovere e difendere nel mondo, alla cui fortuna è legata la stessa fortuna materiale della famiglia; cosa, dunque, più di questo, può rappresentare il concetto jodorowskyano di albero genealogico, cioè il fatto che ogni individuo eredita molto di più che non semplicemente geni e influenza ambientale dalla famiglia, ma un'intero intreccio di malattie, nevrosi, sogni imposti, demoni nel sangue, superstizioni, blocchi, follie, paure, angosce, imposizioni, ammonizioni, plagi, false ambizioni, paranoie immaginarie, mostri psichici di vario tipo, divieti, sabotaggi, valori da venerare, idoli, pesi millenari, millenarie sconfitte che si ripetono sempre identiche nella storia dell'albero genealogico, oppressioni, ceppi, catene psichiche, ragnatele psichiche, offuscamenti, credenze obbligatorie, incapacità compiaciute, miserie ereditarie che vanno al di là dell'influenza di genitori e altri parenti effettivamente conosciuti, ma si ereditano misteriosamente anche da antenati vissuti secoli prima?
La stessa Bottega mi sembra una magnifica rappresentazione dell'albero genealogico: una casa/negozio molto grande, e piena zeppa di ogni sorta di orrore, paccottiglia mortifera di ogni tipo, catalogata, messa in bella mostra su scaffali immensi, un Museo degli Orrori ricchissimo e estremamente vario, di cui però andare fieri, messo come diaframma fra la casa e il mondo.
Bellissima anche la scena in cui una rapida carrellata mostra una parete infinita con le foto grottesche e disperate dei clienti già trapassati. Ad un livello simbolico profondo, mi sembra che invece questa parete rappresenti proprio gli antenati dell'albero.
E anche qui - in questa famiglia così ortodossamente ligia ai suoi doveri di disperazione - arriva la pecora nera: che è come dice Jodorowsky, la persona che nasce in un albero genealogico ma è diversa: non si allinea, non accetta i dogmi familiari, si ribella, e lo fa perché qualcosa di più forte, e non minimizzabile, incoercibile, incontenibile, lo divora e gli impedisce di conformarsi: un artista in una famiglia di ragionieri o di banchieri, un rockettaro in una famiglia di benpensanti che hanno la musica classica e l'opera come culto, un filosofo radicale in una famiglia estremamente cattolica, o chessò, un genio della boxe in una famiglia di intellettuali sedentari che detestano attività fisica e qualsiasi cosa che richiami anche di lontano una forma di lotta e di violenza, o un poeta in una famiglia di fisici teorici, o un fisico teorico in una famiglia di letterati.
Nel caso del film, nasce un bambino felice. Un tipo allegro, che ride sempre, ha sempre voglia di giocare e divertirsi, vede sempre tutto in positivo, nonostante l'ambiente in cui è nato.
I genitori sono sconsolati: non sopportano l'allegria e l'ottimismo di questo bambino "disobbediente alle leggi del branco" (De Andrè) e lo rimproverano e mortificano continuamente, creando spesso una forte delusione nel bambino, che però non si arrende e ogni volta si tira su, pensa a qualcosa di bello e continua a cercare di portare allegria in questa famiglia di venditori-di-morte.
Il bambino cresce e la sua vergognosa diversità non accenna a diminuire: è sempre più allegro, anche se ha dei momenti di profondo sconforto per la immodificabile, rassegnata tristezza della sua famiglia (e della sua città).
Ma non si arrende, non vuole, non si può arrendere. Il suo dàimon, direbbe James Hillman, glie lo impedisce.
Anche questo mi sembra molto jodoroskyano: la pecora nera non sceglie semplicemente la via della ribellione, del seguire un'altra strada (via che rischia di finire per riprodurre semplicemente le stesse identiche cose in un altro paese, o in un'altra veste ideologica) ma sceglie una via molto più impegnativa e risolutiva: quella dell'affrontare i problemi nella famiglia, non allontanandosi dalla famiglia.
Il bambino, coraggioso e determinato, non vuole arrendersi all'evidenza, e decide che, insieme ai suoi amici, deve assolutamente far qualcosa per cambiare la sua famiglia e la sua città.
La soluzione è semplice ma efficacissima: insieme ai suoi amici, e con l'aiuto dello zio di uno di loro, che fa il meccanico, portano davanti al negozio un'auto dotata di un impianto stereo ultra-professionale con casse esterne potentissime: molto semplicemente, le nostre teppe ribelli accendono un'assordante musica da discoteca, fragorosa vitale ma con chitarre elettriche arrabbiatissime, di fronte al negozio, a tutto volume.
Questa è la scena più geniale del film, dal punto di vista simbolico, psicogenealogico: la casa trema, a ritmo, sembra poter crollare da un momento all'altro, i clienti assordati non capiscono cosa succede, la madre urla impazzita, la sorella adolescente prima sbalordita poi invece comincia a ballare con un ragazzo sconosciuto, di cui si innamora. Le boccette di veleno, gli acquari con i piranas e tutte le altre preziosissime chincaglierie nichiliste cadono da tutte le parti, sfracellandosi a terra. Alla fine, il negozio è ancora in piedi, ma tutta la merce è completamente distrutta.
Il finale: la Bottega viene trasformata in una creperia "Au Bons Vivants"! La persone della famiglia cambiano, cominciano a ridere di più, ad avere voglia di vivere, a non vedere tutto nero. La figlia sposa il ragazzo conosciuto durante il "crollo", che è bravissimo a fare le crepes.
Il nostro eroe è più felice che mai.
Anche la conclusione è jodorowskyana.
Si tratta del tema dell'albero luminoso.
Cioè del fatto che nell'albero genealogico, oltre agli spettri, malattie, blocchi, etc... di cui sopra, vengono tramandate anche capacità, talenti, forme di genio, di creatività, di amore, segreti positivi appannaggio dell'albero in base ai quali è possibile avere successo, sogni, utopie, luce, speranza, coraggio, passioni, saggezza, determinazione, sapienza, sostegno per la realizzazione di sé stessi e della propria unicità.
Mi viene da dire: la maniera per neutralizzare l'albero dell'oppressione millenaria e far emergere invece l'albero luminoso non può che essere - e qui mi richiamo a Jodorowsky ma soprattutto a Hillman - una sola: ascoltare quello che Hillman chiama il proprio dàimon: e cioè la propria diversità, la propria irriducibile, non-omologabile, unica, irripetibile forma specifica di ispirazione, di sogno, di visione, di talento, di scopo dello stare al mondo. E' uno scopo che - direbbe Hillman - è già contenuto nella ghianda della tua anima fin da prima della tua nascita.
Mi sembra probabile.
Jodorowsky penso aggiungerebbe: se ascolti e segui il tuo dàimon, in maniera inesorabile, mai arresa, inarrestabile, viscerale, se ti affidi a lui completamente, allora i tuoi antenati da nemici diventeranno misteriosamente i tuoi più potenti alleati.
p.s.: splendide le canzoncine!!!! In puro stile Nightmare before Christmas!!!! Direi dello stesso livello. E ottimamente tradotte e cantate anche in italiano!!!!!!!!
P.s.: In realtà Jodorowsky, da quello che ho capito, non consiglia necessariamente la soluzione dei problemi nella famiglia, ma dice che - nella famiglia o per conto proprio - bisogna affrontare e risolvere blocchi e nodi irrisolti andando alla radice: invece il semplice scegliere una "ideologia", un "gusto", un insieme di opinioni o di abitudini contrapposte a quelle della famiglia di origine non è risolutivo. Traduco in termini miei, filo-Hillmaniani: non è necessario neanche fare chissà quali strani e costosi seminari di terapia psicogenealogica: basta ascoltare il proprio dàimon - e non la semplice contrapposizione a tutti i costi allo "stile" familiare: il proprio dàimon ha uno "stile" suo, unico nella storia dell'universo, segue la sua via, inesorabile e incondizionato: che poi questa via sia più o meno - in apparenza - lontana o vicina allo stile della famiglia, è completamente irrilevante.
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Werner Herzog: Ognuno per sé e Dio contro tutti.
"La meraviglia è il sentimento filosofico per eccellenza." (Platone)
"Ma ciò che distingue il filosofo vero dal falso, è questo: nel primo
il dubbio si risveglia fin dalla prima vista del mondo reale, nell'altro
invece non sorge che dalla lettura di un libro, di un sistema già bell'e
fatto." (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione)
"E non riesco a immaginare che Dio abbia creato tutto dal niente come voi mi dite!"
(Kaspar Hauser)
In Italia gli hanno dato il titolo "L'enigma di Kaspar Hauser", ma il titolo originale è "Jeder fur sich und Gott gegen alle", cioè appunto: ognuno per sé e Dio contro tutti.
Storia della mente-tabula rasa di un uomo che è stato tenuto prigioniero in una cantina fino a venti-venticinque anni, e che perciò, una volta liberato, vede il mondo come un enigma incomprensibile, con gli occhi stupefatti, dubitanti, scettici, interrogativi di uno straniero che non capisce gli usi e costumi degli esseri umani, le loro strane abitudini e credenze e certezze, e non capisce lo stesso mondo della natura, sebbene gli sembri più amico, ospitale e in un certo senso più sincero, perché è sgombro da pregiudizi e categorie prefissate: confrontandosi con esso lo sguardo è libero, e la mente anche, il campo è sgombro da interpretazioni rigide e codificate, per gli altri ovvie, per lui assurde.
La natura gli sembra anche meno malvagia, si sente più a suo agio con gli animali, che si avvicinano a lui senza paura, mentre, con i suoi occhi non schermati di straniero al mondo, gli appaiono senza nessuna velatura o ottundimento sociale la malvagità degli uomini e la brutalità delle sue istituzioni, la Chiesa, le norme sociali, la condizione di asservimento delle donne per esempio (il film è ambientato nell'ottocento).
Non solo Kaspar, non abituato al mondo, non riesce a capire: ma si rifiuta anche di far finta di capire, si rifiuta categoricamente di accettare ciò che non capisce.
Questo tipo di sguardo, al di là del fatto che Kaspar abbia o meno mai letto in vita sua un solo libro di filosofia, è l'autentico sguardo filosofico: che precede e va al di là di qualsiasi discorso tecnico-filosofico, è la filosofia prima della filosofia, dello studio della filosofia, della storia della filosofia, della filosofia come branca del sapere, accademica e dotata di un suo specifico linguaggio, che molto spesso rischia di finire per ridurre i filosofi in mestieranti, saccenti e autocompiaciuti, aristocratici operai del sapere.
Ma invece ciò che veramente conta, per riflettere filosoficamente (cioè criticamente) sul mondo, ciò che è alla base di tutta la filosofia e che è alla fine l'unica cosa veramente importante di tutto il pensiero filosofico - sta tutto nello sguardo "alieno" e incapace di comprendere, ma anche di adattarsi senza comprendere, e desideroso in maniera smaniosa di comprendere, di Kaspar Hauser, della sua mente tabula-rasa che vede tutto per la prima volta e si domanda di tutto: perchè? che senso ha? e: ma sarà veramente così come lo spiegano tutti?
Uno sguardo di meraviglia irriducibile - che è il luogo della riflessione filosofica - ma anche il luogo della poesia, della profezia, dell'intuizione, dell'artista, del mistico, del visionario, del canto spontaneo, della distrazione rapita - di un rapporto con l'universo certamente condizionato, ma non addomesticato, dalle convenzioni sociali - un rapporto in cui l'individuo è libero, il suo sguardo è a diretto contatto con la natura, gli altri, le grandi questioni esistenziali - senza la mediazione di rassicuranti certezze convenzionali - il suo sguardo è puro - perché non parte dalle risposte già concluse - il suo cuore, la sua mente e la sua anima comunicano con il grande spazio aperto dell'universo alla deriva, indeterminato, indefinito - popolato di vita, sogni, emozioni e domande - e in cui le risposte dogmatiche rivelano il loro volto di spettri agghiaccianti.
"Ma ciò che distingue il filosofo vero dal falso, è questo: nel primo
il dubbio si risveglia fin dalla prima vista del mondo reale, nell'altro
invece non sorge che dalla lettura di un libro, di un sistema già bell'e
fatto." (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione)
"E non riesco a immaginare che Dio abbia creato tutto dal niente come voi mi dite!"
(Kaspar Hauser)
In Italia gli hanno dato il titolo "L'enigma di Kaspar Hauser", ma il titolo originale è "Jeder fur sich und Gott gegen alle", cioè appunto: ognuno per sé e Dio contro tutti.
Storia della mente-tabula rasa di un uomo che è stato tenuto prigioniero in una cantina fino a venti-venticinque anni, e che perciò, una volta liberato, vede il mondo come un enigma incomprensibile, con gli occhi stupefatti, dubitanti, scettici, interrogativi di uno straniero che non capisce gli usi e costumi degli esseri umani, le loro strane abitudini e credenze e certezze, e non capisce lo stesso mondo della natura, sebbene gli sembri più amico, ospitale e in un certo senso più sincero, perché è sgombro da pregiudizi e categorie prefissate: confrontandosi con esso lo sguardo è libero, e la mente anche, il campo è sgombro da interpretazioni rigide e codificate, per gli altri ovvie, per lui assurde.
La natura gli sembra anche meno malvagia, si sente più a suo agio con gli animali, che si avvicinano a lui senza paura, mentre, con i suoi occhi non schermati di straniero al mondo, gli appaiono senza nessuna velatura o ottundimento sociale la malvagità degli uomini e la brutalità delle sue istituzioni, la Chiesa, le norme sociali, la condizione di asservimento delle donne per esempio (il film è ambientato nell'ottocento).
Non solo Kaspar, non abituato al mondo, non riesce a capire: ma si rifiuta anche di far finta di capire, si rifiuta categoricamente di accettare ciò che non capisce.
Questo tipo di sguardo, al di là del fatto che Kaspar abbia o meno mai letto in vita sua un solo libro di filosofia, è l'autentico sguardo filosofico: che precede e va al di là di qualsiasi discorso tecnico-filosofico, è la filosofia prima della filosofia, dello studio della filosofia, della storia della filosofia, della filosofia come branca del sapere, accademica e dotata di un suo specifico linguaggio, che molto spesso rischia di finire per ridurre i filosofi in mestieranti, saccenti e autocompiaciuti, aristocratici operai del sapere.
Ma invece ciò che veramente conta, per riflettere filosoficamente (cioè criticamente) sul mondo, ciò che è alla base di tutta la filosofia e che è alla fine l'unica cosa veramente importante di tutto il pensiero filosofico - sta tutto nello sguardo "alieno" e incapace di comprendere, ma anche di adattarsi senza comprendere, e desideroso in maniera smaniosa di comprendere, di Kaspar Hauser, della sua mente tabula-rasa che vede tutto per la prima volta e si domanda di tutto: perchè? che senso ha? e: ma sarà veramente così come lo spiegano tutti?
Uno sguardo di meraviglia irriducibile - che è il luogo della riflessione filosofica - ma anche il luogo della poesia, della profezia, dell'intuizione, dell'artista, del mistico, del visionario, del canto spontaneo, della distrazione rapita - di un rapporto con l'universo certamente condizionato, ma non addomesticato, dalle convenzioni sociali - un rapporto in cui l'individuo è libero, il suo sguardo è a diretto contatto con la natura, gli altri, le grandi questioni esistenziali - senza la mediazione di rassicuranti certezze convenzionali - il suo sguardo è puro - perché non parte dalle risposte già concluse - il suo cuore, la sua mente e la sua anima comunicano con il grande spazio aperto dell'universo alla deriva, indeterminato, indefinito - popolato di vita, sogni, emozioni e domande - e in cui le risposte dogmatiche rivelano il loro volto di spettri agghiaccianti.
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lunedì 15 ottobre 2012
Esibire le atrocità - e - percepire la Bellezza (quasi un proto-abbozzo di manifesto artistico-poetico).
"Sì, in me, e fuori, vertigine e tenebre.
Ma in me e fuori
tanto frutto e vittoria di colori
che, se anche vuoto
il mio capo giace sulla pagina
che reca l'altra luce della luna,
anche se il cuore turbato ne sente
le alte porte cadute, ah, tu, clemente
di fontane, di selve sempre gemmea
mia terra, tu di crisantemi
folta, tu che scemi
in un circolo esile di sogni
e di sospiri,
del tuo latte mi sazi, mai sazio,
e mi riarmi di tutto il tuo spazio
cui giustamente dà fiore la luna
nota, e l'altra che ora
di sé svelata le menti innamora."
(A. Zanzotto, da Palpebra alzata,
contenuta in IX Ecloghe)
Questo articolo vuole, fra le altre cose, essere una risposta - solo parzialmente polemica - all'articolo "La mostra delle atrocità - James Graham Ballard" di Ettore Fobo - il quale è una recensione dell'omonimo (post-)romanzo di Ballard e anche una riflessione sul destino del romanzo contemporaneo.
L'articolo è molto interessante, perciò rimando direttamente ad esso, sul blog di Ettore Fobo:
http://ettorefobo.blogspot.it/2012/10/la-mostra-delle-atrocita-james-graham.html
Faccio qui soltanto una sintesi brevissima del punto della questione.
"Ha ancora senso il romanzo, come opera artistica, oppure esso è diventato puro consumo
di storie inutili e di personaggi ridotti a cliché logorati dall'uso?"
Si chiede Ettore Fobo.
"Io personalmente penso che il romanzo oggi conservi la sua potenza espressiva solo nel
tentativo di superarsi e di deformarsi.", continua.
questa forma è entrata in crisi, pur seguitando a dare alcuni isolati straordinari risultati)
la porta consapevolmente al limite", "riscrivendo il modello di romanzo a cui siamo
nuove impensate forme attraverso la sperimentazione.
stilistica che decompone i modelli letterari prestabiliti, e una testimonianza della
cui viviamo.
Fin qui l'articolo sul blog Strani giorni.
Ma io voglio portare un contro-esempio.
Nel 2011, a 83 anni, Guido Ceronetti scrive In un amore felice, suo primo romanzo.
Lo sto leggendo.
Non ha niente di sperimentale. E' un romanzo classico. La scrittura è cesellata con
dettagliata precisione lirica, come un manoscritto miniato intarsiato di elaboratissimi
iper-particolareggiati geroglifici, ora divenendo vera e propria poesia in prosa, ora scorrendo
rapida ad incalzare e sostenere il ritmo della storia. E la storia, nel complesso, appunto
scorre, è avvincente, appassionante, la si divora, la segui col fiato sospeso volendo sapere
cosa succede dopo, come si addice a una "semplice" storia, come si addice a un romanzo
classico, come si addice a un bel romanzo.
E' "semplicemente" una storia d'amore (nonostante tutto, nonostante il mondo,
estremamente ottimista); una "semplice" storia di fantascienza, con tanto di alieni,
suspence, misteri da svelare; ma anche un romanzo filosofico, filosofico-poetico,
fantascientifico-simbolico, filosofico-ermetico.
Uno sguardo sull'Enigma senza soluzione della vita e dell'Universo.
Eppure lo sto leggendo con la stessa immedesimazione immediata, emozionata, con la
stessa trepidante partecipazione con cui da bambino leggevo Salgari o il Ciclo della
Fondazione di Isaac Asimov.
Non posso che sospendere il giudizio perché non l'ho ancora finito, ma per il momento mi
sembra un romanzo stupendo, una storia avvincente e semplice nel suo sviluppo
coinvolgente, come per un bambino la fiaba - seppure trascini con sè e ponga sul tavolo
questioni filosofiche e spirituali profondissime, dentro il mistero delle quali scruta con
sapienza abissale. Ma lo fa con una storia d'amore, una storia di fantascienza che nel suo
sviluppo è, dal punto di vista narrativo, estremamente classica.
E se ciò che avesse esaurito i suoi giorni fosse invece lo sperimentalismo d'avanguardia
novecentesco, con la sua famelica ansia - certo nel novecento necessaria e vitale - di
sovvertire e distruggere a tutti i costi regole e codici?
Ho visto di recente Lisbon Story di Wenders.
Uno dei personaggi, regista cinematografico, andato a Lisbona per girare un film sulla città
con una cinepresa a manovella dei primi del novecento, gradualmente mentre comincia le
riprese sente che ciò che sta facendo non ha senso: le immagini non catturano nulla della
città. La città invece sembra ritrarsi, quasi ferita, di fronte allo sguardo della sua cinepresa.
Perciò decide di abbandonare il suo progetto originale, e optare per quella che gli sembra
l'unica maniera di preservare uno sguardo "puro", un'immagine "pura", nell'età della
compravendita delle immagini, del consumo onnipresente delle immagini, della diffusione
massificata onnipresente dei video e delle immagini, della stereotipizzazione banalizzante,
meccanica e depauperante - pubblicitaria, televisiva, holliwoodiana - delle immagini e delle
storie raccontate per immagini.
Questo progetto registico alternativo consiste nel mettersi una videocamera nascosta dietro
le spalle e girare a piedi per la città, senza pensare alla videocamera, dimenticandosene,
senza scegliere cosa riprendere né successivamente selezionare il girato - e infine - arriva a
questa conclusione: le immagini prodotte dalla videocamera, per restare "pure", non
dovranno essere mai guardate da nessuno. Neanche da lui.
Forse in una lontana era futura qualcuno le avrebbe guardate come misteriosi,
incontaminati reperti archeologici del nostro tempo.
Il protagonista, fonico cinematografico, arrivato a Lisbona per lavorare con lui al primo
progetto (cioè per fare i suoni al film "muto" girato con cinepresa anni '20), dopo alcune
settimane passate a cercarlo inutilmente (ormai il regista vagava giorno e notte per le
strade con la sua videocamera dietro le spalle) e a registrare suoni di tutti i tipi per le strade
della città, alla fine lo trova e riesce a convincerlo a tornare a lavorare insieme a lui al primo
progetto.
Gli dice - registrando la sua voce sul nastro di una videocassetta: "il cinema è ancora in
grado di raccontare attraverso le immagini storie che commuovono." (più o meno, non sono
le parole testuali).
Storie.
Immagini.
Due delle cose che la letteratura e l'arte del novecento hanno coscientemente distrutto -
perchè le percepivano come una fetida gabbia stantia ormai putrefatta.
Warhol ha girato nel 1964 un film, Empire, consistente in una inquadratura fissa in bianco
e nero, in slow motion, dell'Empire State Building di New York - neanche tanto bella, quasi
inquadrata a caso, o comunque senza nessuna ricerca o pretesa estetica - della durata di
8 ore e 5 minuti.
inquadrata a caso, o comunque senza nessuna ricerca o pretesa estetica - della durata di
8 ore e 5 minuti.
Tutta l'arte contemporanea ha distrutto le immagini, la bellezza in immagini, l'arte
rappresentativa, prima, poi anche la bellezza astratta, perché nel deserto nichilista in cui
viviamo, nella società dei consumi in cui viviamo, dove tutto è prodotto pubblicitario
riproducibile in maniera massificata, le ha percepite come false.
Fontana ha squarciato le sue tele, e quale potenza espressionista, quale tragica forza emana da quelle tele!
Esprimono lo squarcio del presente, il niente del deserto, la morte di Dio, il silenzio angosciato dell'assenza di risposte, il mistero assoluto di fronte al quale non abbiamo punti di riferimento.
Gran parte della letteratura del novecento ha fatto lo stesso con i modelli letterari, ma anche proprio con il concetto di storia, con le storie, con la narrazione.
L'esempio più divertente (che coinvolge stravolgimento di narrazione, di struttura, perfino della lingua, della grammatica, dell'ortografia e del vocabolario) è I fiori blu di Queneau: un capolavoro post-surrealista di puro gioco linguistico, puro nonsense, dove storia e significato scompaiono nel puro piacere divertito, gioioso, della glossolalia narrativa.
Ma anche Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino (che però in realtà sembra esprimere una grandissima passione, e una grandissima nostalgia, per le storie).
Esempi estremi, fra gli altri, sono le varie sperimentazioni letterarie che prevedono la possibilità di leggere le parti di un romanzo in ordini diversi, casuali o decisi dal lettore (per esempio Composizione n. 1 di Marc Saporta è un romanzo - come altri romanzi sperimentali - in cui le pagine sono sparse e non hanno un ordine: il lettore decide in quale ordine leggerle).
La musica ha fatto lo stesso con la melodia e l'armonia, prima con la dodecafonia, che ha fatto a pezzi l'armonia e la melodia classiche, fino ad arrivare a Cage e Stockhausen, che teorizzano il rumore casuale come musica.
Imaginary landscape no. 4, del 1951, è una composizione di Cage per dodici radio. Ogni radio è controllata da due esecutori, uno sintonizza la frequenza, l'altro cambia il volume, seguendo le indicazioni della partitura. I risultati sono sempre differenti e imprevedibili.
Nel 1952 invece Cage compone 4'33”, composizione per qualsiasi strumento. L'opera consiste nel non suonare lo strumento.
Battiato, nel '78, compone un pezzo per piano, L'Egitto prima delle sabbie, che consiste nella ripetizione di una rapida scala - sempre uguale. Varia solo l'intervallo di pausa fra le scale identiche e gli effetti di risonanza dovuti all'uso dei pedali. Fra l'altro è un brano bellissimo, pur non avendo in pratica una vera e propria melodia riesce ad avere una grandissima evocatività lirica.
Il Dadaismo mette una ruota su un piedistallo e il Nuovo Realismo degli anni '70 usa la realtà come materiale artistico, per esempio strappando pezzi di cartelloni pubblicitari per riappiccicarli in maniera creativa, o rivestendo monumenti di teli di plastica.
Warhol fa arte con le foto di Mao, colorandole di fosforescenti toni pubblicitari.
Un'altra opera di Warhol, Oxidation Painting, del 1978, è una tela verniciata su cui Warhol e amici hanno urinato, producendo ossidazione e quindi cambiamento di colore nei punti colpiti.
Tutto è arte.
Anche i barattoli di salsa Campbells.
(E anche la merda d'artista, commenterebbe sarcastico Piero Manzoni).
Tutto è arte.
Non solo ciò che è stato tradizionalmente codificato come tale e come "bello" secondo canoni di bellezza ormai percepiti come decrepite illusioni cadaveriche.
L'Arte esce dai musei, diventa per esempio performance, ma distrugge anche consapevolmente modelli estetici percepiti come finti e asfissianti, o comunque superati, morti. Ma facendo questo ha forse ucciso, o contribuito ad uccidere, la Bellezza. O quantomeno, non l'ha resuscitata.
Alla stessa maniera, anche il Rumore è musica, e un grattacielo ripreso per otto ore con inquadratura fissa è cinema (o arte, cambia poco).
Per quanto riguarda invece la narrazione cinematografica, la trama dell'angosciante capolavoro di Antonioni Blow Up consiste tutta nell'indagine del protagonista sull'irrealtà della realtà, l'irrealtà dei fatti, l'irrealtà e la disgregazione quindi anche delle storie.
Anche in poesia i canoni sono sovvertiti, la stessa musicalità dei versi è spesso avvertita
come obsolescente, dai futuristi alle cose più sperimentali di Zanzotto è tutto un continuo
rompere, spaccare ritmi conosciuti, dilaniare le melodie classiche del verso per ottenere
una lirica che sia una secca ma autentica testimonianza della vita contemporanea, della
vita nelle "giungle delle città d'asfalto".
Le immagini sono false, le storie sono false, l'armonia e la melodia sono false, le rime sono
false.
Sono tutte varianti della morte di Dio, espressioni del deserto di vuoto siderale in cui
esistiamo.
Eppure, le storie davvero non sono più possibili?
Certo, sono da reinventare, ma davvero le storie e i romanzi, le storie-storie, con una
narrazione coerente e unitaria, con protagonisti-personaggi-trama-sviluppo-ostacoli-
antagonisti etc... sono morte?
Il romanzo-romanzo di Ceronetti, voce antica, voce vecchia, voce inattuale, promette
decisamente bene.
Alla stessa maniera in cui Lisbon Story, pur reinventando il cinema, pur essendo
decisamente innovativo e originale, anzi decisamente - in tutto e per tutto: strano, anche
estraniato, enigmatico - a tratti alienato e alienante - eppure nonostante questo è un film
classico e un omaggio al cinema classico, una avvincente storia per immagini, anche se
non succede quasi niente. Ha la freschezza, la purezza, la vitalità, la bellezza
del cinema dei primordi e di quello dei grandi maestri classici come Fellini, a cui il film è
dedicato.
La fotografia di Lisbon Story è fatta di straordinari dipinti.
Nel film non succede quasi nulla, eppure l'effetto di identificazione con la storia (per
quanto sui generis), col protagonista (in certi momenti ti sembra di essere lì a Lisbona) è
perfettamente riuscito.
Forse, chiunque oggi si dedichi a creare Arte, cinema, Poesia, Musica, letteratura, ha il
compito - non più di distruggere statici codici ormai trapassati nell'inutile - questo è già
stato fatto - e ampiamente anche - ma di ricostruire, reinventandole, storie, versi, immagini,
melodie - che sappiano essere testimoni della verità viscerale di chi le crea e del tempo in
cui vive, con i suoi orrori, le sue atrocità, la sua assenza di senso, la sua grottesca
assurdità - ma che sappiano anche di nuovo riconvocarci al luogo meravigliato
del dovere più grande: percepire la Bellezza.
Post Scriptum:
Del resto il caso di Ceronetti non è certo l'unico.
Per esempio, Haruki Murakami ha scritto negli ultimi decenni diversi eccezionali romanzi.
Del resto il caso di Ceronetti non è certo l'unico.
Per esempio, Haruki Murakami ha scritto negli ultimi decenni diversi eccezionali romanzi.
Il migliore, fra quelli che ho letto, è sicuramente L'uccello che girava le viti del mondo.
Capolavoro di "realismo magico", o meglio forse quasi "realismo fantasy", è un'epopea
fantasy che si svolge quasi tutta nello stesso quartiere residenziale di Tokyo negli anni '80.
Elementi magico-fantastici scivolano gradualmente e in maniera all'inizio impercettibile, poi
completamente naturale e credibile nelle tranquille giornate routinarie di un disoccupato
giapponese. Vicende fantastiche, che in realtà paradossalmente non si allontanano mai
veramente dalla realtà quotidiana - con valori simbolici psico-esistenziali, storico-culturali
(relativi al Giappone contemporaneo) e filosofico-metafisici profondissimi - ma che sono
innanzitutto avventure, storie coinvolgenti come narrazioni mitologiche - un'odissea
contemporanea, un percorso in cui il protagonista affronta prove iniziatiche e faticosa
conquista di sé come in un racconto cavalleresco medievale, una fiaba o una leggenda
tradizionale.
Un'altro esempio è Neil Gaiman, che, dopo aver scritto Sandman (il Signore del Mondo
dei Sogni, l'unico mondo dove le Storie - nella accezione più tradizionale e archetipica -
hanno ancora un senso e un valore magico), il fumetto con valore letterario più grande che
io abbia letto - si è dedicato negli ultimi vent'anni ai romanzi, sia per ragazzi che per adulti.
Io ho letto uno di questi ultimi, Nessun dove.
Anche qui una specie di realismo magico o fantasy.
Universi paralleli coesistono a un passo dal - o dentro al - nostro.
Universi fantastici abitati da simbologie sociologiche e psicologiche, ma innanzitutto da
storie, sogni, avventure mirabolanti che sono il contraltare della normalità e della piatta
quotidianità borghesi.
Anche qui un universo magico-fantastico, mitologico, che in realtà non si allontana dalla
realtà di tutti i giorni, si nasconde fra le sue pieghe, nei suoi angoli bui e nascosti -
dimenticati.
Le storie di Gaiman sono come il racconto divertito di dei ubriachi o folletti ridanciani - o
versioni post-moderne di dei e folletti - che ti fanno capire segreti e verità eterne con un
motto ilare o uno scherzo ben riuscito - dotati di uno sguardo superiore e quindi distaccato
sul mondo umano, ma contemporaneamente estremamente benevolo e affezionato agli
esseri umani.
Le vicende vissute dai personaggi di Murakami invece sono più degli incomprensibili
inquietanti frammenti di enigma, di cui sfugge lo scopo e il senso, ma attraverso le cui
impenetrabili nebbie si intuiscono comunque sprazzi di significati e di disegni superiori, una
guerra epica fra Bene e Male su di un campo dove si sono perse certezze metafisiche e
esistenziali, ma nel buio del quale - anche grazie all'aiuto di strani personaggi-alleati
e di bizzarre, inspiegate coincidenze magiche - si riesce comunque a fiutare la buona pista
della direzione da prendere per realizzarsi.
Insomma, più ancora del romanzo - nella sua determinata forma storicamente data, di
matrice ottocentesca - che comunque secondo me ha ancora moltissimo da dire - ciò di cui
più mi preme sottolineare il valore attualissimo, urgente, vivo - è la magia delle Storie, nella
loro dimensione eterna e archetipica - certamente molto più presente nel romanzo di
Ceronetti o in quelli di Murakami o di Gaiman, che non in esperimenti principalmente
intellettual-letterari, figli di una crisi culturale che - anche se profonda, radicale, viscerale,
sconvolgente, e plurisecolare - è solo un brevissimo incubo destinato ben presto a essere
dimenticato - se rapportata all'Eternità dell'Essere, come scriveva nel 1952 Ernst Jünger.
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