"In
quel giardino io ero nella Psiche, mi accorgevo che tutto era psicologia
intorno a me, tutto parlava psicologicamente. Il mondo è come un
giardino in quanto si manifesta; è un mondo di cose come alberi,
sentieri, ponti; è anche un mondo di intuizioni, di metafore, di
insegnamenti - a disposizione di ogni anima che passa - dati con la
facilità dei riflessi sul lago: il giardino rende più intellegibile e
più bella l'interiorità dell'anima."
(James Hillman)
https://www.youtube.com/watch?v=60gSsJGwo5Y&index=43&list=PL7B014773700170DD
LASCIA TUTTO, E SEGUITI! (F. Battiato) Dove tutto è enigma (storia, natura, cosmo) la certezza dell'insolubilità pone un invisibile seme di speranza. (Guido Ceronetti)

di-segno di Sacrilegio Tempesta
?
pARTICOLARE DI "Autunno", quadro di Diogene senza l'anima?. Foto di Sacrilegio Tempesta.
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domenica 4 maggio 2014
martedì 15 gennaio 2013
UTOPIA RANDAGIA-
"Nell'evoluzione di tutti gli artisti, il germe delle opere successive è sempre contenuto nelle prime. Il nucleo intorno al quale l'intelletto dell'artista costruisce la propria opera è il suo io. L'unica influenza che io abbia mai avuto sono io stesso." (Edward Hopper)
"Gli adolescenti avvertono dentro di sè una segreta e speciale grandezza che lotta per esprimersi. E quando cercano di spiegare questa cosa, istintivamente portano la mano al cuore: non è un indizio significativo?" (Joseph Chilton Pearce, Evolutions End)
"E' dunque questo che chiamiamo vocazione: la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo?" (Josephine Baker)
"Io non mi evolvo: io sono." (Pablo Picasso)
(tutti citati in: James Hillman, Il codice dell'anima)
Un discorso analogo a quanto scritto qui sotto sulla musica, vale per qualsiasi ambito educativo, e in generale per qualsiasi ambito dell'arte, del sapere, delle innumerevoli attività umane.
"Tout ce que le monde a fait de meilleur/ca vien de là, juste pour le plaisir", "tutto ciò che il mondo ha fatto di migliore/viene da qui, giusto per il piacere", cantavano un bel po' di anni fa gli Zebda, gruppo franco-algerino, in una canzone contro ogni forma di fondamentalismo o di fanatismo.
Mi sembra il principio fondamentale di ogni successo, di ogni buona e utile attività umana, di ogni progetto destinato a produrre qualcosa di buono, il segreto di ogni forma di genio, di ogni grande artista, o in generale di chiunque abbia fatto qualcosa di significativo nella storia del genere umano.
La scuola ci insegna il Dovere -imparare a memoria elenchi infiniti di nozioni di cui ci sfugge il significato ultimo, imparare meccanicamente teorie a pappagallo - o imparare altrettanto meccanicamente e a pappagallo a copiare, a fare cose che non sfiorano neanche di lontano la sete infinita di Vita, di autenticità, di vero, di viscerale bellezza che rode la nostra anima.
E così, nella maggior parte dei casi è la vita adulta: ci sovrasta il Dover Essere, la Competizione, il dover dimostrare di valere di fronte agli occhi del Giudice esteriore o interiore, la Performatività, il Dover-raggiungere-standard-di-Produzione "adeguati". Produci-consuma-crepa-
ma il genio che è in ognuno di noi in questa maniera viene schiacciato, incatenato, azzittito, messo in punizione in un cantuccio e lasciato a morire d'inedia, assiderato, dimenticato, abbandonato, negato, picchiato.
il genio cresce ovunque l'individuo sia lasciato libero di fare nient'altro che quello che gli dà piacere, con i suoi modi, i suoi ritmi, le sue forme e la sua forma specifica di follia, direbbe Hillman, cioè d'ispirazione, anche con le stranezze, le ossesioni e le specifiche manie che sono parte integrante di questa ispirazione, il suo speciale linguiaggio magico, la sua maniera di esistere, unica, irripetibile e geniale. "Il suo marchio speciale di speciale disperazione", direbbe Faber, ma non necessariamente ha da essere disperato, 'sto canto irriducibile della nostra Anima!
L'Arte, per esempio, è necessariamente un'esperienza bastarda, randagia, al di fuori di un codice predefinito, un inseguire un destino di cui solo l'individuo conosce i segreti, un destino strappato all'anonimia meccanica dalla potenza, dalla prepotenza del dàimon dell'artista, che lo chiama, lo sfida, lo tormenta, gli impedisce di allinearsi a codici non suoi, imposti dall'esterno, gli impedisce di acquietarsi e rinunciare al proprio enigma, lo chiama, lo trascina, lo ferisce, lo dilania fino a far nascere il fiore del suo Genio.
Ma mi piace seguire un filo associativo che neanch'io so dove va a parare, perciò, a proposito di bastardi e randagi, voglio scrivere qualche riga su una splendida conferenza che ho sentito ieri sulle dinamiche e la comunicazione nei branchi di cani randagi, con il vago presentimento che qualcosa c'entri.
Splendida conferenza, dal titolo appunto Esperienza randagia, tenuta da Michele Minunno, educatore cinofilo, che ha studiato da vicino e ripreso numerosi branchi di cani randagi nel sud Italia, dove il fenomeno è comune.
Più di tutto mi ha colpito il discorso di Minunno a favore dei branchi randagi, chiaramente nel caso che non mettano in pericolo sè stessi o altri. Nella maggior parte dei casi, queste "famiglie" di cani sono perfettamente adattate al territorio e ai suoi abitanti, umani e canini, e si gestiscono perfettamente, sono molto tranquilli - se incontrano altri cani sanno perfettamente come regolarsi: sono i nostri cani d'appartamento e di città, che hanno parzialmente perso la capacità di comunicare e di confrontarsi liberamente con gli altri, e per questo sono così aggressivi, iper-eccitati, e riproducono l'ansia dei loro padroni innervosendosi, spesso, all'incontro con altri cani sconosciuti.
I cani liberi sono diversi: se incontrano cani sconosciuti, mettono in gioco le loro sviluppatisime capacità comunicative: si studiano, s'abbaiano un po', si annusano, si allontanano, sbadigliano, marchiano il terriorio, si riallontanano, si riavvicinano, finchè trovano un equilibrio. Sono molto più tranquilli dei nostri cani, e sanno sempre come regolarsi, seguendo sapientemente codici di comportamento e di comunicazione istintivi che portano al naturale "ordinamento", fluido, spontaneo e non imposto, di ogni individuo. Minunno possiede un cane che è stato per cinque anni "capo" di un branco di randagi: è un cane eccezionale, su cui non funziona nessuna forma di controllo, non sa fare nemmeno il "seduto" - eppure in questo caso il controllo è completamente inutile, perchè si tratta di un cane capace di adattarsi con estrema tranquillità e grandissima funzionalità a qualsiasi situazione, da solo, spontaneamente.
I cosiddetti "capobranco" non hanno comportamenti aggressivi, è sufficiente la loro presenza e la loro autorevolezza per creare ordine e affiatamento nel branco.
I cosiddetti "cani dominanti", invece - detti così dalla nostra ignorante cultura nevrotica cittadina - cioè cani aggressivi, sempre tesi alla competizione, sempre iper-eccitati, mettono in atto un comportamento da cane adolescente, che deve sempre dimostrare di valere di più in quanto insicuro - e se questo comportamento è presente in cani adulti è indice di una profonda insicurezza, debolezza, sofferenza, carenza di capacità comunicative "adeguate".
I personaggi più divertenti, comici di questi filmati sono: un lupo cecoslovacco adolescente, non randagio, che si trova sempre comicamente in bilico fra bisogno adolescenziale di fare il gradasso, e il confronto con questi cani randagi, molto più sgamati di lui, che, anche se spesso di taglia molto più piccola, finiscono sempre per fargli abbassare la cresta. E poi: quello che Minunno chiama il "vice-sindaco" del paesino dove sono stati girati i filmati: un piccolo simpatico bassotto, che si fa rispettare da tutti, e "gestisce" l'intera vita sociale canina del paese, a cui tutti chiedono di "metterci una buona parola" se hanno bisogno di qualcosa, che se ne scorrazza sempre da una parte all'altra del paese per i suoi innumerevoli impegni sociali. La cosa che colpisce è che il "vice-sindaco" è un cane sempre tranquillo, rilassato, che non si tende , non si stressa mai per niente e si adatta a qualsiasi interlocutore, e deve il suo ruolo alle sue abilità sociali e comunicative, estremamente affinate, alla sua estroversione, simpatia e socievolezza, si potrebbe dire, e non certo alla sua aggressività.
Ne conseguono due cose: 1) nella maggior parte dei casi, è assurdo prendere questi cani, perfettamente inseriti nel territorio e con i "vicini" canini e umani - e rinchiuderli in un canile, un lager in cui probabilemte resteranno rinchiusi tutta la vita;
2) comicissimamente appare, chiara e limpida, l'analogia fra la società dei cani e la società degli esseri umani.
Le società moderne metropolitane sono società di adolescenti insicuri, tutti tesi e stressati dall'idea di competizione, tutti terrorizzati dall'idea di poter non "valere" agli occhi degli altri, tutti sempre iper-eccitati (e in più, frenetici), tutti costantemente, meccanicamente incastrati nella modalità aggressiva, nervosa, cinica come modalità di base nel proprio rapporto col mondo e con gli altri (iper-aggressivi, e in più anche repressi).
Un lupo adulto non abbaia mai. E' un verso da lupo cucciolo, o adolescente, insicuro, che ha bisogno di fare la voce grossa per richiamare l'aiuto del branco. Un lupo adulto non ne ha bisogno, non ha bisogno di dimostrare la sua forza, proprio perchè è estremamente sicuro della sua forza.
La società degli esseri umani di oggi è invece una società di adolescenti che abbaiano in continuazione, senza fermarsi un attimo, senza una pausa di rilassamento realmente umano in cui ricominicare a tirare un reale respiro, senza un momento di una risata realmente franca, realmente affratellante, lasciando perdere le cazzate, lo stress e la competizione ininterrotti, inutili.
Dietro alle facce sgargianti di top-manager, modelle-vamp, impiegati cinici, alternativi fighetti, pompati cocainomani palestrati, o donne in carriera senza scrupoli, si apre l'abisso di anime perse, alla deriva, senza un perchè, senza una filo di poesia che gli sgorghi a fiotti imprevisto dal cuore, persone che hanno perso il contatto con la propria Anima, il proprio dàimon.
Al mondo serve un'utopia randagia!
- che ci liberi dalle catene del Dover-Apparire e ci permetta di reincontrarci, nel mondo, con lo sguardo libero da pregiudizi e la sapienza trasparente, serena, tranquilla, rilassata, aperta alla comunicazione, di anime randagie, bastarde, senza niente da dimostrare, senza tic da imporre o ideologie da difendere, senza gabbie-doveri in cui auto-immolarsi o con cui schiavizzare altri, senza stress meccanico da propagandare come "forza" (hahahahahahhaah!!!!!!!!) con niente da perdere e tutto da guadagnare nello stare al mondo insieme agli altri, seguendo ciò che ad ognuno dà piacere, gioia, allegria, divertimento, benessere, realizzazione, felicità, aritmica soddisfazione bastarda non-allineata, ognuno a stretto contatto fedele col proprio istinto, libero, sano, forte, vivo, rilassato, e con la voce della propria anima, liberata da fardelli di iper-razionalità e dal peso oppressivo di dover squadrare sempre da ogni lato in maniera mutilante l'enigma inquieto del proprio esserci indefinibile.
Gli animali, questi fratelli oscuri e leali di mistero, possono essere i migliori maestri per questo.
Foto: Sacrilegio, "Nel nonpensiero/del suo bel muso nero"
Nella foto: Sgrinchomannus.
Il titolo della foto sono due versi di una poesia di Diogene senza l'anima?
"Gli adolescenti avvertono dentro di sè una segreta e speciale grandezza che lotta per esprimersi. E quando cercano di spiegare questa cosa, istintivamente portano la mano al cuore: non è un indizio significativo?" (Joseph Chilton Pearce, Evolutions End)
"E' dunque questo che chiamiamo vocazione: la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo?" (Josephine Baker)
"Io non mi evolvo: io sono." (Pablo Picasso)
(tutti citati in: James Hillman, Il codice dell'anima)
Un discorso analogo a quanto scritto qui sotto sulla musica, vale per qualsiasi ambito educativo, e in generale per qualsiasi ambito dell'arte, del sapere, delle innumerevoli attività umane.
"Tout ce que le monde a fait de meilleur/ca vien de là, juste pour le plaisir", "tutto ciò che il mondo ha fatto di migliore/viene da qui, giusto per il piacere", cantavano un bel po' di anni fa gli Zebda, gruppo franco-algerino, in una canzone contro ogni forma di fondamentalismo o di fanatismo.
Mi sembra il principio fondamentale di ogni successo, di ogni buona e utile attività umana, di ogni progetto destinato a produrre qualcosa di buono, il segreto di ogni forma di genio, di ogni grande artista, o in generale di chiunque abbia fatto qualcosa di significativo nella storia del genere umano.
La scuola ci insegna il Dovere -imparare a memoria elenchi infiniti di nozioni di cui ci sfugge il significato ultimo, imparare meccanicamente teorie a pappagallo - o imparare altrettanto meccanicamente e a pappagallo a copiare, a fare cose che non sfiorano neanche di lontano la sete infinita di Vita, di autenticità, di vero, di viscerale bellezza che rode la nostra anima.
E così, nella maggior parte dei casi è la vita adulta: ci sovrasta il Dover Essere, la Competizione, il dover dimostrare di valere di fronte agli occhi del Giudice esteriore o interiore, la Performatività, il Dover-raggiungere-standard-di-Produzione "adeguati". Produci-consuma-crepa-
ma il genio che è in ognuno di noi in questa maniera viene schiacciato, incatenato, azzittito, messo in punizione in un cantuccio e lasciato a morire d'inedia, assiderato, dimenticato, abbandonato, negato, picchiato.
il genio cresce ovunque l'individuo sia lasciato libero di fare nient'altro che quello che gli dà piacere, con i suoi modi, i suoi ritmi, le sue forme e la sua forma specifica di follia, direbbe Hillman, cioè d'ispirazione, anche con le stranezze, le ossesioni e le specifiche manie che sono parte integrante di questa ispirazione, il suo speciale linguiaggio magico, la sua maniera di esistere, unica, irripetibile e geniale. "Il suo marchio speciale di speciale disperazione", direbbe Faber, ma non necessariamente ha da essere disperato, 'sto canto irriducibile della nostra Anima!
L'Arte, per esempio, è necessariamente un'esperienza bastarda, randagia, al di fuori di un codice predefinito, un inseguire un destino di cui solo l'individuo conosce i segreti, un destino strappato all'anonimia meccanica dalla potenza, dalla prepotenza del dàimon dell'artista, che lo chiama, lo sfida, lo tormenta, gli impedisce di allinearsi a codici non suoi, imposti dall'esterno, gli impedisce di acquietarsi e rinunciare al proprio enigma, lo chiama, lo trascina, lo ferisce, lo dilania fino a far nascere il fiore del suo Genio.
Ma mi piace seguire un filo associativo che neanch'io so dove va a parare, perciò, a proposito di bastardi e randagi, voglio scrivere qualche riga su una splendida conferenza che ho sentito ieri sulle dinamiche e la comunicazione nei branchi di cani randagi, con il vago presentimento che qualcosa c'entri.
Splendida conferenza, dal titolo appunto Esperienza randagia, tenuta da Michele Minunno, educatore cinofilo, che ha studiato da vicino e ripreso numerosi branchi di cani randagi nel sud Italia, dove il fenomeno è comune.
Più di tutto mi ha colpito il discorso di Minunno a favore dei branchi randagi, chiaramente nel caso che non mettano in pericolo sè stessi o altri. Nella maggior parte dei casi, queste "famiglie" di cani sono perfettamente adattate al territorio e ai suoi abitanti, umani e canini, e si gestiscono perfettamente, sono molto tranquilli - se incontrano altri cani sanno perfettamente come regolarsi: sono i nostri cani d'appartamento e di città, che hanno parzialmente perso la capacità di comunicare e di confrontarsi liberamente con gli altri, e per questo sono così aggressivi, iper-eccitati, e riproducono l'ansia dei loro padroni innervosendosi, spesso, all'incontro con altri cani sconosciuti.
I cani liberi sono diversi: se incontrano cani sconosciuti, mettono in gioco le loro sviluppatisime capacità comunicative: si studiano, s'abbaiano un po', si annusano, si allontanano, sbadigliano, marchiano il terriorio, si riallontanano, si riavvicinano, finchè trovano un equilibrio. Sono molto più tranquilli dei nostri cani, e sanno sempre come regolarsi, seguendo sapientemente codici di comportamento e di comunicazione istintivi che portano al naturale "ordinamento", fluido, spontaneo e non imposto, di ogni individuo. Minunno possiede un cane che è stato per cinque anni "capo" di un branco di randagi: è un cane eccezionale, su cui non funziona nessuna forma di controllo, non sa fare nemmeno il "seduto" - eppure in questo caso il controllo è completamente inutile, perchè si tratta di un cane capace di adattarsi con estrema tranquillità e grandissima funzionalità a qualsiasi situazione, da solo, spontaneamente.
I cosiddetti "capobranco" non hanno comportamenti aggressivi, è sufficiente la loro presenza e la loro autorevolezza per creare ordine e affiatamento nel branco.
I cosiddetti "cani dominanti", invece - detti così dalla nostra ignorante cultura nevrotica cittadina - cioè cani aggressivi, sempre tesi alla competizione, sempre iper-eccitati, mettono in atto un comportamento da cane adolescente, che deve sempre dimostrare di valere di più in quanto insicuro - e se questo comportamento è presente in cani adulti è indice di una profonda insicurezza, debolezza, sofferenza, carenza di capacità comunicative "adeguate".
I personaggi più divertenti, comici di questi filmati sono: un lupo cecoslovacco adolescente, non randagio, che si trova sempre comicamente in bilico fra bisogno adolescenziale di fare il gradasso, e il confronto con questi cani randagi, molto più sgamati di lui, che, anche se spesso di taglia molto più piccola, finiscono sempre per fargli abbassare la cresta. E poi: quello che Minunno chiama il "vice-sindaco" del paesino dove sono stati girati i filmati: un piccolo simpatico bassotto, che si fa rispettare da tutti, e "gestisce" l'intera vita sociale canina del paese, a cui tutti chiedono di "metterci una buona parola" se hanno bisogno di qualcosa, che se ne scorrazza sempre da una parte all'altra del paese per i suoi innumerevoli impegni sociali. La cosa che colpisce è che il "vice-sindaco" è un cane sempre tranquillo, rilassato, che non si tende , non si stressa mai per niente e si adatta a qualsiasi interlocutore, e deve il suo ruolo alle sue abilità sociali e comunicative, estremamente affinate, alla sua estroversione, simpatia e socievolezza, si potrebbe dire, e non certo alla sua aggressività.
Ne conseguono due cose: 1) nella maggior parte dei casi, è assurdo prendere questi cani, perfettamente inseriti nel territorio e con i "vicini" canini e umani - e rinchiuderli in un canile, un lager in cui probabilemte resteranno rinchiusi tutta la vita;
2) comicissimamente appare, chiara e limpida, l'analogia fra la società dei cani e la società degli esseri umani.
Le società moderne metropolitane sono società di adolescenti insicuri, tutti tesi e stressati dall'idea di competizione, tutti terrorizzati dall'idea di poter non "valere" agli occhi degli altri, tutti sempre iper-eccitati (e in più, frenetici), tutti costantemente, meccanicamente incastrati nella modalità aggressiva, nervosa, cinica come modalità di base nel proprio rapporto col mondo e con gli altri (iper-aggressivi, e in più anche repressi).
Un lupo adulto non abbaia mai. E' un verso da lupo cucciolo, o adolescente, insicuro, che ha bisogno di fare la voce grossa per richiamare l'aiuto del branco. Un lupo adulto non ne ha bisogno, non ha bisogno di dimostrare la sua forza, proprio perchè è estremamente sicuro della sua forza.
La società degli esseri umani di oggi è invece una società di adolescenti che abbaiano in continuazione, senza fermarsi un attimo, senza una pausa di rilassamento realmente umano in cui ricominicare a tirare un reale respiro, senza un momento di una risata realmente franca, realmente affratellante, lasciando perdere le cazzate, lo stress e la competizione ininterrotti, inutili.
Dietro alle facce sgargianti di top-manager, modelle-vamp, impiegati cinici, alternativi fighetti, pompati cocainomani palestrati, o donne in carriera senza scrupoli, si apre l'abisso di anime perse, alla deriva, senza un perchè, senza una filo di poesia che gli sgorghi a fiotti imprevisto dal cuore, persone che hanno perso il contatto con la propria Anima, il proprio dàimon.
Al mondo serve un'utopia randagia!
- che ci liberi dalle catene del Dover-Apparire e ci permetta di reincontrarci, nel mondo, con lo sguardo libero da pregiudizi e la sapienza trasparente, serena, tranquilla, rilassata, aperta alla comunicazione, di anime randagie, bastarde, senza niente da dimostrare, senza tic da imporre o ideologie da difendere, senza gabbie-doveri in cui auto-immolarsi o con cui schiavizzare altri, senza stress meccanico da propagandare come "forza" (hahahahahahhaah!!!!!!!!) con niente da perdere e tutto da guadagnare nello stare al mondo insieme agli altri, seguendo ciò che ad ognuno dà piacere, gioia, allegria, divertimento, benessere, realizzazione, felicità, aritmica soddisfazione bastarda non-allineata, ognuno a stretto contatto fedele col proprio istinto, libero, sano, forte, vivo, rilassato, e con la voce della propria anima, liberata da fardelli di iper-razionalità e dal peso oppressivo di dover squadrare sempre da ogni lato in maniera mutilante l'enigma inquieto del proprio esserci indefinibile.
Gli animali, questi fratelli oscuri e leali di mistero, possono essere i migliori maestri per questo.
Foto: Sacrilegio, "Nel nonpensiero/del suo bel muso nero"
Nella foto: Sgrinchomannus.
Il titolo della foto sono due versi di una poesia di Diogene senza l'anima?
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martedì 8 gennaio 2013
"La Bottega dei Suicidi" e l'eresia dell'entusiasmo di vivere.
"La bottega dei suicidi", ultimo film di Patrice Leconte - e suo primo film d'animazione - è chiaramente un film jodorowskyano.
Non certo perché assomigli ai film di Alejandro Jodorowsky, ma perché è una chiara, superba esemplificazione delle sue teorie psicologiche.
In una metropoli contemporanea (Parigi? Milano?) tutto ormai è grigio, spento, senza senso: i suoi abitanti, tristi larve svuotate di esseri umani, si trascinano stancamente per le sue strade buie senza un reale motivo, senza uno straccio di sogno o entusiasmo, senza nessuna voglia di vivere o respirare, i volti incavati segnati da paure prive ormai di un oggetto, esili fantocci sconfitti schiacciati da fantasmi senza nome, trafitti da una rassegnazione esausta, oltre il nichilismo verso il semplice incenerimento di qualsiasi desiderio o slancio o sussulto anche casuale di vita, verso la putrefazione dell'anima, il completo oblio di un qualsiasi ricordo di un lontano senso.
I suicidi aumentano ogni giorno.
Ma perfino suicidarsi, in questa cupa Metropoli del Dover-Essere, del Vietato Essere, è vietato.
O, perlomeno, suicidarsi in pubblico. L'Apparenza - Ciò Conta - dev'essere salvaguardata, e chi si suicida per strada - molti, moltissimi - ricevono come unica reazione dell'apparato pubblico una multa ficcata a forza nella bocca del suicida da una volante subito accorsa - e che subito si dilegua.
Per risolvere i problemi di questi cittadini stanchi di vivere ma che giustamente preferirebbero evitare multe postume, né certo vorrebbero intralciare il traffico, c'è la Bottega dei Suicidi: un negozio fornitissimo, assolutamente legale, anzi fornito di regolare licenza, dove si può trovare qualsiasi strumento - dai più ordinari ai più originali - per liberarsi definitivamente di una vita percepita ormai come un peso inutile - ma rispettando pur sempre doverosamente il comune senso del pudore, ponendo fine ai propri giorni nel proprio privato alveo, nascosto agli occhi di chi, pur condividendo magari l'assunto filosofico di base del suicida, potrebbe trovare sconveniente una morte violenta in pubblico, sotto un'auto o giù da un ponte. La vita non ha senso, ma le forme, almeno quelle, per Dio! - non vanno assolutamente dimenticate - siamo o non siamo pur sempre un continente civile???!?
I clienti si aggirano attoniti, incuriositi, affascinati fra le moltissime chincaglierie letali del fortunatissimo esercizio, molto alla moda. Alcuni acquistano la prima cosa che gli viene proposta dai gestori, tutto gli sembra indifferente - altri invece sembrano affascinati dall'abilità dialettico-commerciale della coppia proprietaria dell'attività, e seguono con interesse e quasi con occhi che brillano i loro discorsi sul "veleno, che è una scelta molto femminile - tutto sommato assomiglia a un profumo, no?" o sulla katana giapponese che "è molto virile", sull'estetica dei prodotti, alcuni incisi a mano, sull'essere "all'ultima moda" di alcune soluzioni. L'apparenza e il consumismo seguono le persone fino al loro salto nel buio. Tutti poi si preoccupano del prezzo: "Mah, mi sembra un po' caro..." ma sono rincuorati dallo slogan "Trapassati o rimborsati!".
Ma ecco l'elemento psicogenalogico, o jodorowskyano.
Cosa meglio di una famiglia, una coppia che, anche con l'aiuto dei figli, un bambino e una bambina, gestisce un'attività il cui core-business è la negazione della vita, la disperazione, e fa questo perché segue una tradizione familiare inaugurata da un bisnonno che aprì il negozio nell'ottocento, venerato come una specie di santo - una famiglia che ha fatto dell'assioma che la vita è triste, disperata, senza senso non solo il fulcro, il centro dell'ideologia familiare, della religione familiare - ma addirittura lo scopo di tutta la vita, anche professionale, un assunto da promuovere e difendere nel mondo, alla cui fortuna è legata la stessa fortuna materiale della famiglia; cosa, dunque, più di questo, può rappresentare il concetto jodorowskyano di albero genealogico, cioè il fatto che ogni individuo eredita molto di più che non semplicemente geni e influenza ambientale dalla famiglia, ma un'intero intreccio di malattie, nevrosi, sogni imposti, demoni nel sangue, superstizioni, blocchi, follie, paure, angosce, imposizioni, ammonizioni, plagi, false ambizioni, paranoie immaginarie, mostri psichici di vario tipo, divieti, sabotaggi, valori da venerare, idoli, pesi millenari, millenarie sconfitte che si ripetono sempre identiche nella storia dell'albero genealogico, oppressioni, ceppi, catene psichiche, ragnatele psichiche, offuscamenti, credenze obbligatorie, incapacità compiaciute, miserie ereditarie che vanno al di là dell'influenza di genitori e altri parenti effettivamente conosciuti, ma si ereditano misteriosamente anche da antenati vissuti secoli prima?
La stessa Bottega mi sembra una magnifica rappresentazione dell'albero genealogico: una casa/negozio molto grande, e piena zeppa di ogni sorta di orrore, paccottiglia mortifera di ogni tipo, catalogata, messa in bella mostra su scaffali immensi, un Museo degli Orrori ricchissimo e estremamente vario, di cui però andare fieri, messo come diaframma fra la casa e il mondo.
Bellissima anche la scena in cui una rapida carrellata mostra una parete infinita con le foto grottesche e disperate dei clienti già trapassati. Ad un livello simbolico profondo, mi sembra che invece questa parete rappresenti proprio gli antenati dell'albero.
E anche qui - in questa famiglia così ortodossamente ligia ai suoi doveri di disperazione - arriva la pecora nera: che è come dice Jodorowsky, la persona che nasce in un albero genealogico ma è diversa: non si allinea, non accetta i dogmi familiari, si ribella, e lo fa perché qualcosa di più forte, e non minimizzabile, incoercibile, incontenibile, lo divora e gli impedisce di conformarsi: un artista in una famiglia di ragionieri o di banchieri, un rockettaro in una famiglia di benpensanti che hanno la musica classica e l'opera come culto, un filosofo radicale in una famiglia estremamente cattolica, o chessò, un genio della boxe in una famiglia di intellettuali sedentari che detestano attività fisica e qualsiasi cosa che richiami anche di lontano una forma di lotta e di violenza, o un poeta in una famiglia di fisici teorici, o un fisico teorico in una famiglia di letterati.
Nel caso del film, nasce un bambino felice. Un tipo allegro, che ride sempre, ha sempre voglia di giocare e divertirsi, vede sempre tutto in positivo, nonostante l'ambiente in cui è nato.
I genitori sono sconsolati: non sopportano l'allegria e l'ottimismo di questo bambino "disobbediente alle leggi del branco" (De Andrè) e lo rimproverano e mortificano continuamente, creando spesso una forte delusione nel bambino, che però non si arrende e ogni volta si tira su, pensa a qualcosa di bello e continua a cercare di portare allegria in questa famiglia di venditori-di-morte.
Il bambino cresce e la sua vergognosa diversità non accenna a diminuire: è sempre più allegro, anche se ha dei momenti di profondo sconforto per la immodificabile, rassegnata tristezza della sua famiglia (e della sua città).
Ma non si arrende, non vuole, non si può arrendere. Il suo dàimon, direbbe James Hillman, glie lo impedisce.
Anche questo mi sembra molto jodoroskyano: la pecora nera non sceglie semplicemente la via della ribellione, del seguire un'altra strada (via che rischia di finire per riprodurre semplicemente le stesse identiche cose in un altro paese, o in un'altra veste ideologica) ma sceglie una via molto più impegnativa e risolutiva: quella dell'affrontare i problemi nella famiglia, non allontanandosi dalla famiglia.
Il bambino, coraggioso e determinato, non vuole arrendersi all'evidenza, e decide che, insieme ai suoi amici, deve assolutamente far qualcosa per cambiare la sua famiglia e la sua città.
La soluzione è semplice ma efficacissima: insieme ai suoi amici, e con l'aiuto dello zio di uno di loro, che fa il meccanico, portano davanti al negozio un'auto dotata di un impianto stereo ultra-professionale con casse esterne potentissime: molto semplicemente, le nostre teppe ribelli accendono un'assordante musica da discoteca, fragorosa vitale ma con chitarre elettriche arrabbiatissime, di fronte al negozio, a tutto volume.
Questa è la scena più geniale del film, dal punto di vista simbolico, psicogenealogico: la casa trema, a ritmo, sembra poter crollare da un momento all'altro, i clienti assordati non capiscono cosa succede, la madre urla impazzita, la sorella adolescente prima sbalordita poi invece comincia a ballare con un ragazzo sconosciuto, di cui si innamora. Le boccette di veleno, gli acquari con i piranas e tutte le altre preziosissime chincaglierie nichiliste cadono da tutte le parti, sfracellandosi a terra. Alla fine, il negozio è ancora in piedi, ma tutta la merce è completamente distrutta.
Il finale: la Bottega viene trasformata in una creperia "Au Bons Vivants"! La persone della famiglia cambiano, cominciano a ridere di più, ad avere voglia di vivere, a non vedere tutto nero. La figlia sposa il ragazzo conosciuto durante il "crollo", che è bravissimo a fare le crepes.
Il nostro eroe è più felice che mai.
Anche la conclusione è jodorowskyana.
Si tratta del tema dell'albero luminoso.
Cioè del fatto che nell'albero genealogico, oltre agli spettri, malattie, blocchi, etc... di cui sopra, vengono tramandate anche capacità, talenti, forme di genio, di creatività, di amore, segreti positivi appannaggio dell'albero in base ai quali è possibile avere successo, sogni, utopie, luce, speranza, coraggio, passioni, saggezza, determinazione, sapienza, sostegno per la realizzazione di sé stessi e della propria unicità.
Mi viene da dire: la maniera per neutralizzare l'albero dell'oppressione millenaria e far emergere invece l'albero luminoso non può che essere - e qui mi richiamo a Jodorowsky ma soprattutto a Hillman - una sola: ascoltare quello che Hillman chiama il proprio dàimon: e cioè la propria diversità, la propria irriducibile, non-omologabile, unica, irripetibile forma specifica di ispirazione, di sogno, di visione, di talento, di scopo dello stare al mondo. E' uno scopo che - direbbe Hillman - è già contenuto nella ghianda della tua anima fin da prima della tua nascita.
Mi sembra probabile.
Jodorowsky penso aggiungerebbe: se ascolti e segui il tuo dàimon, in maniera inesorabile, mai arresa, inarrestabile, viscerale, se ti affidi a lui completamente, allora i tuoi antenati da nemici diventeranno misteriosamente i tuoi più potenti alleati.
p.s.: splendide le canzoncine!!!! In puro stile Nightmare before Christmas!!!! Direi dello stesso livello. E ottimamente tradotte e cantate anche in italiano!!!!!!!!
P.s.: In realtà Jodorowsky, da quello che ho capito, non consiglia necessariamente la soluzione dei problemi nella famiglia, ma dice che - nella famiglia o per conto proprio - bisogna affrontare e risolvere blocchi e nodi irrisolti andando alla radice: invece il semplice scegliere una "ideologia", un "gusto", un insieme di opinioni o di abitudini contrapposte a quelle della famiglia di origine non è risolutivo. Traduco in termini miei, filo-Hillmaniani: non è necessario neanche fare chissà quali strani e costosi seminari di terapia psicogenealogica: basta ascoltare il proprio dàimon - e non la semplice contrapposizione a tutti i costi allo "stile" familiare: il proprio dàimon ha uno "stile" suo, unico nella storia dell'universo, segue la sua via, inesorabile e incondizionato: che poi questa via sia più o meno - in apparenza - lontana o vicina allo stile della famiglia, è completamente irrilevante.
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