di-segno di Sacrilegio Tempesta

?

?
pARTICOLARE DI "Autunno", quadro di Diogene senza l'anima?. Foto di Sacrilegio Tempesta.

giovedì 31 gennaio 2013

ritardo

E arriverà un tempo, un tempo prossimo, un tempo imminente, forse, in cui la parola "ritardo" sarà usata, invece che per parlare di persone con minori capacità intellettuali, per parlare delle persone con superiori capacità spirituali.

"Quello ha dei processi mentali ritardati" - diranno con voce piena di invidia, ma anche di ammirazione, gli uomini-macchina-flash delle poche persone rimaste con un cuore, un ritmo, una musica, un'Anima.

"Lo vedi quel tipo lì???? E' ritardatissimo!!!" - diranno gli Schiavi della Velocità Alienata con un misto di paura, tremore e sbalordimento, parlando dei massimi geni del pensiero e dell'arte.

Perfino l'ex-insulto "lento di comprendonio" diventerà un rarissimo complimento, teso a definire i pochissimi individui, i pochissimi singoli, che, invece di farsi plagiare rapidamente e volentieri dal primo slogan che compare, e poi da quello opposto l'istante successivo, manterranno, salda, la capacità di valutare, analizzare, con attenzione, rigore, lentezza, cautela, lucidità esasperata, rifiutandosi di "capire" laddove non c'è niente da capire, ma esclusivamente da adeguarsi acriticamente.

Giordano Bruno fu "lento di comprendonio".

Si rifiutò di "capire".

E "lenti di comprendonio" sono e furono tutti gli spiriti liberi, e così saranno anche nell'Età della Tecnica, sempre e comunque esasperantemente liberi, scettici e rigorosamente attenti, lenti, riflessivi, analitici.

Infine, le parole "semplice" ed "ingenuo" verranno usate per definire, in senso elogiativo, i poeti-vate e i sacerdoti della Profezia, a cui i Servi della Macchina accorreranno a frotte disperati per chiedere responsi oracolari, avendo perso la capacità di ascoltare la Voce della Luna e i consigli degli Dei.

Ma, questi spiriti liberi, in caso di necessità, saranno i più veloci di tutti.


                              Diogene senza l'anima?



http://www.youtube.com/watch?v=XXy0o_JTdmE

martedì 29 gennaio 2013

Guardare le cose come se fosse la prima volta, cancellando la memoria, i rinvii, le associazioni, il mettere a fuoco, le spiegazioni, è l'unica maniera per tornare indietro.

Ritornare indietro all'eterno.

Per esempio, leggendo una poesia, contemplando un'opera d'arte o una musica, se mi sforzo di rievocare ciò che ho provato, il frammento di eterno che ho sperimentato la prima volta che l'ho letta, vista o ascoltata, mi perderò in un loop mentale, cerebrale, completamente sterile, votato al fallimento, presente e temporale.
Se invece contemplo l'arte come se fosse la prima volta che la vedessi, sono fuori dal tempo, e rischio di risperimentare il frammento di eterno che già una volta mi fu regalato. Nell'eterno non c'è un prima e un dopo, non c'è diversità, e non esiste perdita. Se ritrovi l'eterno, hai ritrovato tutto.

Sperimentazioni maieutiche/2.

Poco prima dell'ultimo Natale Ettore Fobo ha pubblicato questo post:

http://ettorefobo.blogspot.it/2012/12/il-natale-oggi-secondo-umberto.html#comments

Ho risposto così:

http://de-crea-zione.blogspot.it/2012/12/natale-e-deserto.html

Successivamente il dialogo è continuato come commenti al suo post.

Qui riporto lo scambio di idee, perchè mi è sembrato molto proficuo e interessante.


Mi piace immaginarlo come una specie di dialogo socratico post-moderno fra lo spettro di un eroe ormai terrorizzato dal rumore senza anima che sente dappertutto, rumore di macchine in cui non riesce più a riconoscere la voce degli Dei, e il fantasma di un filosofo radicale, anticonformista, eudaimonista, ludico, menefreghista, amico degli animali e nemico delle menzogne, di ogni cosa non strettamente necessaria e di ogni artificio, che non riesce a ritrovare la sua dimensione naturale, spontanea, semplice - la sua anima.

Questo eroe senza Dei e questo cinico senza anima e Natura se ne stanno come ectoplasmi al margine estremo del mondo, osservando la nostra società e commentando con voci fra l'incuriosito e l'attonito le stranezze che ivi vi scorgono - paragonandole a cose antiche e da lungo tempo dimenticate.


Ettore Fobo:

 Questa è un’epoca di passaggio. Nuovi valori devono essere creati e i vecchi valori vanno definitivamente sepolti. Come dici tu, non possiamo più riconnetterci con i culti antichi e il cristianesimo è ormai pressoché privo di vita. Non so se sia un effetto di quello che tu chiami il Moloch dei consumi o se il consumismo abbia preso il posto già lasciato vuoto dalla crisi del cristianesimo. Però questa condizione di impasse non può essere eterna, finito un ciclo della storia ce ne sarà un altro con nuove idee e nuovi valori. E’ solo questione di tempo. Come in tutte le epoche di crisi, ci sono profezie di catastrofi imminenti che sono il segno che un mondo sta finendo e un altro mondo sta emergendo. Ormai è chiaro che sarà la Tecnica a determinare questa trasformazione, da qui il pessimismo di molti filosofi, tra cui Galimberti, secondo cui l’uomo non è più il vero soggetto della Storia ma mero funzionario degli apparati della Tecnica. Io non so e come tutti sono in attesa.

Diogene senza l'anima?:

O forse, in fondo, come diceva De Andrè in un'intervista (riporto in parte con parole mie il concetto): nonostante questa apparenza di cambiamento così rapido, radicale, omnipervasivo, "io credo che i problemi fondamentali dell'essere umano resteranno sempre gli stessi, immutati, ancora per molti secoli - e forse per sempre."
...Ah, ecco, mi ricordo le parole esatte:  "Io credo che l'uomo potrà anche conquistare le stelle, ma penso d'altra parte che le sue problematiche fondamentali sono destinate a rimanere le stesse per molto tempo, se non addirittura per sempre."

Ettore Fobo:

I problemi dell’uomo saranno gli stessi, ma mai come in quest’epoca essi possono essere ridefiniti attraverso la tecnologia e la scienza (penso soprattutto alla chimica). In proposito la neurologa Susan Greenfield ha scritto un saggio eloquente, “Gente di domani”, in cui descrive un mondo a venire per noi impensabile e forse inquietante. Da più parti si pensa che la tecnologia possa modificare l’umano nella sostanza. Chissà, magari è solo un sogno, di sicuro
per ora la frase di De André non può essere smentita.

Diogene senza l'anima?:

Sicuramente siamo in un periodo di mutazione. Ma gran parte della filosofia insiste sulla fenomenicità apparente di ogni mutamento. L'essenza non muta. Perciò neanche l'essenzialmente umano. L'essere è - come direbbe Parmenide - il divenire è non essere. Perciò l'apparenza di un cambiamento radicale non può che essere un fantasma passeggero. "Allora non si crederà più, come fa l'uomo del volgo, che il tempo possa generare qualcosa di veramente nuovo e di veramente importante; che nel tempo e per via del tempo qualcosa possa attingere ad una realtà assoluta; non si attribuirà più al tempo, come a un tutto, un principio e una fine, un disegno e uno svolgimento; né, seguendo il concetto volgare, si assegnerà come fine allo scorrere del tempo il più alto perfezionamento del genere umano. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, libro III, paragrafo 35).

Ettore Fobo:

Bello, Diogene, mi hai convinto. L’essenza non muta, ma superficialmente i cambiamenti avvengono. I valori per esempio, nulla di sostanziale, fenomeni passeggeri ma importanti in una data epoca. Maschere se vogliamo, necessarie per la nostra finzione. Cito Oscar Wilde, a memoria: “Le verità della metafisica sono maschere “. Dietro la maschera, che cambia a seconda dei tempi, l’immutabile essenza.

Diogene senza l'anima?:

Fantastico, l'aforisma di Wilde e la tua conclusione sono esattamente in sintonia con quello che volevo aggiungere. La metafisica con Nietszche crolla, e con Heidegger definitivamente l'essere diventa storico, perchè l'essere è linguaggio. Da qui muove l'ermeneutica, orizzonte nel quale a occhio e croce direi si potrebbe probabilmente inscrivere il discorso di Galimberti, e così tutti i discorsi filosofici, che fanno Heidegger e tantissimi altri filosofi, sul destino della Metafisica, il destino del Nichilismo, il destino della nostra civiltà occidentale, il destino del cristianesimo, il destino della Tecnica. Tuttavia, da quello che ho capito, l'autentico pensiero di Heidegger non è riducibile a questa concezione dei suoi epigoni dell'ermeneutica. A me sembra che tutti i grandi filosofi, Heidegger incluso, si siano sempre mossi, nonostante l'estrema varietà e l'estremo variare storico delle "maschere", all'interno di un orizzonte di tipo parmenideo. Anche in Heidegger, il linguaggio e l'essere storici, pur nelle ceneri della Metafisica e dei sistemi, affondano le loro radici in qualcosa di indefinibile, che, sia a livello di Essere, che forse in un certo senso anche a livello di Linguaggio, è Eterno. I valori e le maschere metafisiche mutano, il nocciolo dell'Essere permane eterno nel suo inaccessibile mistero. Mi esprimo in termini generici perchè non conosco in maniera approfondita il secondo Heidegger, ma questa è l'idea che mi sono fatto.

Ettore Fobo:

E’ l’idea che mi sono fatto anch’io Diogene: nessun filosofo, neanche Nietzsche, che è quello che forse ci è andato più vicino, è riuscito a superare la metafisica, gli orizzonti parmenidei rimangono immacolati. Un filosofo contemporaneo molto interessante, che sta provando a superare la metafisica, è John Gray. Ne ho parlato in questo blog a proposito del suo libro “Cani di paglia”. E’ un tentativo di uscire dall’incubo metafisico e antropocentrico. C’è molto da pensare ancora, oltre l’uomo e oltre i suoi orizzonti metafisici. La filosofia è appena iniziata.

Diogene senza l'anima?:

Ho letto l'articolo su Gray. Mi richiama il mio articolo del 29 novembre sullo shivaismo tantrico del kashmir (smettere di avere scopi). In comune, il filo-taoista Gray e l'insegnante di shivaismo tantrico in questione nel mio articolo (Nathalie Delay) hanno questo: l'invito a lasciar perdere, lasciar cadere qualsiasi scopo metafisico, religioso o ideologico; qualsiasi senso. L'incubo, di qualsiasi senso, della ricerca mai soddisfatta, perennemente insoddisfatta, e perciò distruttiva, violenta, nel suo voler a tutti i costi affermare qualcosa. Trovo questo lasciar perdere Dio, scopi, Sensi, visioni chiare e definite, velleità di miglioramento del reale, volontà precise, ispirazioni salvifiche, molto rasserenante. Resta, direbbe Nathalie Delay, la vita, la vita sensibile, "il cuore pulsante della nostra insensatezza" come dici nel tuo post, il fluiresenzaunsensoprecisomapullulantedistorieincidentipersonaggifattiintuizioniombrelucicontraddizionispiraliemotivepensierimicropoesie della vita quotidiana, con la sua noia, la sua sofferenza, le sue emozioni, i suoi preziosi istanti di magia priva di un dio o un disegno - gratuiti.

Ettore Fobo:

Ho riletto il tuo post. Parli della contraddizione fondamentale di un certo pensiero orientale, penso a Krishnamurti: essere un maestro che dice che non ci sono maestri. Però il nocciolo è proprio lì: smettere di proiettare su qualcuno, di essere un seguace, di inseguire speranze trascendenti. Mi sembra che nella semplice accettazione delle vita hic et nunc ci sia abbastanza saggezza.

Diogene senza l'anima?:

Certo. In un certo senso è forse il tema di tutto il mio blog. Ma questa antinomia si estende anche alla filosofia. Anche John Gray è un filosofo che teorizza la fine delle verità filosofiche. Questo è analogo a Krishnamurti che teorizza, da maestro, la fine della sensatezza di seguire un maestro. E' una questione molto sottile. Anche tu rilevi una contraddizione fra una critica radicale al concetto di guru, e più in generale al fatto di accodarsi a una serie di dogmi, riti, credenze - appartenenza religiosa di clan che per Krishnamurti offusca stravolge e compromette in maniera completa le capacità della mente di essere un campo aperto, semplicemente ricettivo, equanime, privo di pregiudizi o preferenze - radar imparziale del reale, una pista aperta sugli indizi della verità, in ricerca viscerale sulla base di una percezione autenticamente scevra da pre-idee e di un esame radicalmente libero (in maniera analoga a quello che diceva Simone Weil quando affermava che appartenere a un qualsiasi partito politico impedisce una sincera analisi del reale e una onesta presa di posizione su di esso; o quando diceva che aderire a qualsiasi religione, filosofia o semplicemente idea, vuol dire chiudere la partita della propria ricerca della verità: si può aderire a un'idea, diceva la Weil, solo in maniera parziale, relativa, limitatamente a quegli aspetti che al proprio esame risultano effettivamente veri; e sempre con la consapevolezza che si tratta solo di un passo parziale e momentaneo della propria ricerca, che quindi bisogna in ogni istante essere pronti a mettere tutto in discussione, sulla base del proprio libero e continuamente, vigilantemente critico esame - quindi qualsiasi "adesione" in senso stretto a una idea qualsiasi, qualsiasi "convincimento", qualsiasi "assenso" a una teoria o una prassi è da rifiutare in quanto uccide la verità) e il porsi comunque di Krishnamurti a suo modo come maestro.
Ma questo chiaramente si estende anche alla filosofia: anche quello di Gray, per esempio, è pur sempre un sistema di pensiero, con un contenuto preciso, un insieme organizzato di idee che richiede un'adesione, un assenso. Non è semplicemente il vivere nell'hic et nunc (del resto anche "vivere nell'hic et nunc" è un preciso concetto filosofico, con una precisa storia): è una filosofia, con concetti inevitabilmente precisi di riferimento, contenuti teorici filosofici che si possono mettere a confronto con qualsiasi altro contenuto filosofico, e possono essere discussi a livello filosofico, ma che non sono il semplice hic et nunc, sono una filosofia precisa con concetti filosofici precisi, collocabili in un contesto filosofico-culturale preciso.

E allora, da un certo punto di vista, che differenza c'è, fra aderire al sistema filosofico di Platone e aderire al "sistema" filosofico di Gray? E' la stessa cosa. E' un assenso a una teoria, della quale ci lasciamo convincere. Le diverse teorie possono essere confrontate e dibattute a livello filosofico, ma sono tutte egualmente "metafisiche", sono tutte, alla pari, delle costruzioni teoriche filosofiche, analizzabili a livello concettuale, o magari filosofico-intuitivo, ma non riducibili all'"accettazione dell'hic et nunc". Qualsiasi filosofia, qualsiasi discorso, qualsiasi concetto è già un'interpretazione.

Come un maestro che critica i maestri è contraddittorio, così è contraddittorio un filosofo che critica le "certezze metafisiche" e si proclama, ma sempre facendo una precisa teoria filosofica, come difensore e garante della semplice vita al di là di qualsiasi senso astratto. Ma anche il suo invece è un senso astratto, concettuale, filosofico, metafisico, e il suo presentarsi come extra o meta-metafisco è contraddittorio e in un certo senso può essere visto anche come un imbroglio.

Sulla base di queste riflessioni, tutte le filosofie della demistificazione, della dissacrazione e della demitizzazione - dall'illuminismo, poi il positivismo, fino a Nietszche, Krishnamurti, Gray e moltissimi altri, potrebbero forse assumere l'inquietante profilo di supreme ingannatrici: proprio in quanto pretendono di insegnare a svelare gli inganni - ma, proprio nel fare questo, si pongono come nuovi Simulacri/Dogmi a cui aderire. Del resto, il caso dell'illuminismo, del positivismo e in generale di tutta la filosofia moderna razionalistica è emblematico: basta vedere cosa ha prodotto.

Ettore Fobo:

Grazie Diogene, bellissima disamina, molto chiara ed esaustiva. Non posso che essere d’accordo. Soprattutto quando scrivi che filosofi come Nietzsche hanno finito per erigere nuovi idoli, laddove cercavano di abbattere credenze (penso al mito dell’oltreuomo). Questa tendenza è avvertibile anche in John Gray, in Heidegger, in Cioran e in tutti i grandi becchini della tradizione filosofica occidentale.

Con l’espressione hic et nunc, ne sono consapevole, sottintendevo una visione (filosofica) del mondo che escludesse l’orizzonte della speranza in un aldilà.

Per quanto riguarda l’illuminismo e il positivismo, penso che la loro tendenza dogmatica sia veramente inquietante e non cessa di gettare la sua ombra sul nostro presente, in cui la scienza ha sostituito la religione come narcotico per le masse. La nostra epoca iper razionale ha molti scheletri nell’armadio, molti orrori ha prodotto e continua a produrre.

Vedo con sospetto e sgomento l’imporsi di un pensiero calcolante, attento unicamente all’utile, la crescente mania dell’efficienza, il mito stesso del progresso, idolo fra i più pericolosi, l’enorme potere conferito all’economia, scienza malefica; cresce la confusione e si fatica a orizzontarsi. Come Ceronetti, il filosofo ignoto, penso che la filosofia possa e debba essere una luce in questo buio che ha tutti i contorni della pazzia.

Cerco così, come tutti, forse, di vivere la mia vita fra le rovine della religione e le nuove cattedrali della scienza. Entrambe mi sembrano fragili, prossime al crollo … Sento inoltre che questo crollo, oltre che catastrofico, può anche essere liberatorio.






P.s.: a parte il dettaglio che è alquanto bizzarro e un po' grottesco immaginare che due spettri possano avere un blog, mi pare che per il resto il dialogo, se immaginato come avvenente fra questi due personaggi post-mitologici, spettri antichi che osservano il mondo d'oggi, sia tutto sommato stranamente coerente, estremamente divertente, e infine, mi sembra che i significati e le interpretazioni messe in gioco nel dialogo assumano un peso e un'aura diverse, un tono più inquietante ma allo stesso tempo più distaccato. Il tutto diventa una specie di semi-coerente racconto filosofico enigmatico.


domenica 27 gennaio 2013

Sperimentazioni maieutiche/1.

Un amico scrive questo post:

http://animadidiaspro.weebly.com/1/post/2013/01/poesia-dellego-e-poesia-dellanima.html

Rispondo così:

penso che ognuno ha la sua maniera. per quanto mi riguarda, comunque, tendo a pensare che la musicalità e in particolare le rime 

ci risultino spesso stanche, un pò false e stereotipate perchè viviamo in una società rumorosa, aritmica, sconnessa, tachicardica, 

confusa, caotica, anti-musicale. In realtà, secondo me, in origine, anticamente, musica e poesia erano una sola cosa, e forse 

persino il linguaggio quotidiano era fatto di melodie, metafore, assonanze, rime. Poi, certo, si è sviluppata la poesia come genere 

letterario con i suoi canoni e le sue regole, e oggi, forse giustamente, questo rigore formale ci appare appunto come falso e 

"senz'anima". Personalmente scrivo delle poesie che, nella maggior parte dei casi, sono molto musicali, sono piene zeppe di 

assonanze e hanno molte rime, anche se non seguono le regole formali della poesia classica. Ma, il fatto è che a me questo viene 

naturale: mi escono fuori già così, la mia anima, se vuoi, ha un linguaggio fatto così, un linguaggio-canto. Trovo invece abbastanza 

ridicolo, soprattutto oggi, mettersi a scrivere intenzionalmente con lo scopo di trovare rime e assonanze, o, peggio, cercando di 

rispettare strutture formali classiche come per esempio quella di un sonetto. In questi casi, il risultato non può che essere 

artificioso, forzato, e suonare come falso, melenso, stereotipato o stucchevole. Sì, magari qualche esperimento a comporre un 

sonetto può essere interessante e divertente, ma secondo me la poesia, soprattutto oggi, è un'altra cosa. Come dici tu, le nostre

 orecchie ne hanno abbastanza di rime stereotipate e versi codificati, ciò di cui abbiamo bisogno è altro, è amore, è grido, è 

sussulto, 



è qualcosa di viscerale che venga dal cuore e dall'anima, che strappi un rantolo di commozione alla nostra anima sonnolenta. Mi 

piacciono moltissimo le tue poesie, si sente che vengono dall'anima, e questo passa, colpisce, perfora il cuore, scuote, non lascia 

indifferenti! Il fatto che le tue poesie siano diverse dalle mie non conta: ogni anima ha il suo linguaggio, il suo canto, la sua nota.

C'è più linguaggio musicale per esempio nelle tue poesie, che mi sembrano molto spontanee, sentite, urlate dal cuore, che in molte 

poesie basate su una specifica ricerca tecnica di assonanze e rime.





Lo scambio di opinioni è così proseguito:


Jaspere:

 In cio che ho scritto non cerà critica verso una dei due tipi di poesie. Concordo quando dici che una strofa "pensata", imposta dalla ragione è forzata. Con questo metodo,cioè con il fatto di porre forzatura all'interno della poesia si trova secondo me quello di cui parli, cioè descriviamo una nostra imposizione,un nostro schema mentale.
Al contrario io trovo le tue poesie molto belle ! E sicuramente provengono dall'anima, io trovo che assomiglino molto a quelle di Dylan. La tua anima cerca di liberare il tuo ego dagli artifici della società. Da cio che lo ingigantisce.Almeno io trovo questo nelle tue poesie.
Prendi Cocci ad esempio :
eccoci
poveri stracci
ruderi cocci
bandiere tirate a lucido
per barattare
polvere
con abbracci reali
baratri
con
baci
slacciati
delacrimati
non stracciati

Fin qui vedi la persistenza di rime è molto forte, qui stai descrivendo cio che ti imprigiona secondo me.....

eccoci
polveriere
allo sbaraglio
a
fingere
luce e
colori
per un pò d'amore
a simulare
gigantismi
grattacieli
stereoscopici
bagliori
neon
esplosivi
fuochi d'artificio
e slogan promozionali
e versi di poesia
improvvisati
per
nascondere
o
trovare

Qui invece ci sono meno rime, secondo me dentro di te, te ne stai liberando,ti stai liberando di cio che ti inprigiona, E' il momento della rilfessione inconscia.

rapsodie d'acqua
pura dentro il cuore.

Qui invece,sei arrivato alla soluzione e esplode non solo l'assenza di rime ma anche la simbologia naturale, che alla fine è qualcosa di profondo e primordiale !

Ed hai tutta la mia stima ! Perchè se pur le mie siano piene di simbolismi,descrivono solamente quello che in fondo a me è presente.E forse ad accomunare qualcuno nel sentire queste cose. Forse a scoprire queste cose anche dentro di loro. Le tue riescono a fare una cosa altrettanto bella e utile a liberare le persone da quello che le rende egoiste,superficiali.....

 Non so ti ho solo descritto cio che provo quando le leggo !

Diogene:

 mah non so, sicuramente nelle mie poesie c'è il tema dell'artificialità, della reclusione in schemi repressivi e in stereotipi meccanizzati, di contro alla libertà dell'anima. Non concordo però con la tua analisi, perchè per me la musicalità del verso, anche con assonanze e rime, se è naturale e non forzata, esprime, almeno nel mio caso, e anche in altri autori, proprio quello che potrei chiamare il canto naturale, spontaneo dell'anima, di contro al lingaggio quotidiano, colloquiale e non musicale. è una musicalità che può essere anche non rimata, in certi casi addirittura dissonante e rumorosa, soprattutto di questi tempi, ma è comunque una specie di canto. secondo me la musicalità della prima parte di "cocci" non esprime la falsità e le catene della mente, degli stereotipi, ma al contrario esprime il canto di un'anima stanca delle maschere, che svelando la meccanicità egoica, super-affermativa della vita moderna, trova già in questo un sollievo, una consolazione. descrivendo la forzatura sta già riappropriandosi di sè stessa e della propria voce. all'inizio è un canto consolatorio, di denuncia ma quindi anche liberatorio, alla fine c'è un'esplosione di speranza, che è pur sempre musica in parole, anche se non con rime e assonanze.


Jaspere:


Considera che è stata un analisi veloce, non molto accorta e che quello che dico non viene da certezze o studi di psicologia. Quello che dico è una mia teoria. E anche per questo che mi confronto volentieri con gli altri. Magari mi fanno notare qualcosa che non ho notato da solo ! O forse che mi sbaglio completamente.
Comunque se pur io l'abbia detto male è questo che intendevo quando ho scritto che cerchi di liberarti dagli artefici della società :
"ma al contrario esprime il canto di un'anima stanca delle maschere, che svelando la meccanicità egoica, super-affermativa della vita moderna, trova già in questo un sollievo, una consolazione. descrivendo la forzatura sta già riappropriandosi di sè stessa e della propria voce."
Descrivendolo lo rendi noto, rendi noto cio che ti imprigiona e gia questo è liberatorio per te stesso e per chi legge la tua poesia. Ma tu secondo me non ti fermi qui,vai oltre, tu trovi il modo di liberartene, di ritrovare in te quello che era nascosto dalla forzatura ! E alla fine non solo trovi speranza, ma ritrovi totalmente quello la tua anima voleva mostrarti !



Diogene:


in ogni caso io ho sempre pensato che l'autore, in particolare in poesia, non è assolutamente il detentore dei significati e delle interpretazioni "giuste" dell'opera. L'opera ha una vita propria, una volontà propria, e l'autore in un certo senso è solo il tramite che le permette di apparire. Quindi la tua interpretazione della mia poesia è giusta quanto la mia, visto che a te ti ha suscitato quello che hai descritto.
Comunque, per spiegarti meglio quello che invece sento io, ti faccio quest'altro esempio. Questa volta non è una mia poesia, ma una poesia di una poetessa che amo molto, Mariangela Gualtieri.

http://de-crea-zione.blogspot.it/2012/12/una-poesia-di-mariangela-gualtieri.html

Questa poesia della Gualtieri presenta molte rime e assonanze, e attraverso questa musicalità rende in maniera sublime l'armonia e la bellezza, la musicalità appunto, della Natura. In particolare, la triplice rima "adoro-loro-d'oro" è secondo me il centro della poesia, e il culmine dello stato di adorazione ebbra della poetessa, incantata dalla bellezza delle api.

sabato 26 gennaio 2013

qui, e ora.


guARDAre il mondo con i propri occhi


perchè la posta in gioco

è la nostra vita.



qui

e

ora.


                                        (G. Gaber)

http://www.youtube.com/watch?NR=1&v=MnbTH8WJsWI&feature=endscreen






guardare le cose come se fosse la prima volta.


Dubitare delle risposte già pronte,

dubitare dei nostri pensieri fermi, sicuri,

inamovibili.


Dubitare delle nostre convinzioni  presuntuose

e saccenti.


Smettere di sentirsi vittime

delle madri, dei padri, dei figli, dei mariti, delle mogli.

quando forse siamo vittime soltanto

della mancanza di potere su noi stessi.




smascherare la nostra falsa coscienza individuale.


smettere di  piagnucolare, criticare, affermare, fare il tifo

e leggere i giornali.

essere certi solo di ciò che viviamo direttamente.


un uomo non può essere veramente vitale

se non si sente parte di qualche cosa.


abbandonare ogni facile soluzione

ma abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo.

trovare l'audacia di frequentare il futuro con gioia.

perchè la spinta utopistica non è mai accorata

o piangente

la spinta utopistica non ha memoria

e non si cura di dolorose attese.

la spinta utopistica è subito.




qui.

e ora. 


guardare il mondo con i nostri occhi.

                                               (G. Gaber)
Io come uomo io vedo il mondo come un deserto di antiche rovine.

Leggi tutto il testo su: http://singring.virgilio.it/testi/giorgio-gaber/testo-una-nuova-coscienza.html
Io come uomo io vedo il mondo come un deserto di antiche rovine.

Leggi tutto il testo su: http://singring.virgilio.it/testi/giorgio-gaber/testo-una-nuova-coscienza.html
BELIEVE, OR EXPLODE!

                                         (pATTI SmITH)

giovedì 24 gennaio 2013

Ma io come persona sono ancora qui.

in un tempo di rassegnata decadenza

serpeggia la paura

nascosta dall'indifferenza.




in un tempo tremendo

in un tempo così tremendo.

 

in ogni parte del mondo.






con così tanta informazione

che alla fine uno non sa niente.






a non scegliere mai.

a non scegliere mai.

a non scegliere mai.








vogliamo ancora fare qualcosa,

ma non possiamo fare niente.



non possiamo fare niente.







ma io, come persona, sono ancora qui.


                                                                                (G. Gaber)


http://www.youtube.com/watch?v=LEeX5HtzX7I



http://www.youtube.com/watch?v=i8mPWeX5zJA&NR=1



venerdì 18 gennaio 2013

effimero, errore desidero attimo calore

diorama di luce e pensieri

calore scioglie spettri paure terrori

spaventa demoni

stiepidisce fiori, crisalidi di ghiaccio

il mio cane dorme

sogni ombre colori

fuori una giornata di sole caldo

a Gennaio

nei pezzi di terra dimenticati in ombra

crescono

le malerbe della buona sorte.

Più che nelle visioni estetiche di un calligrafo

del Medio Evo giapponese,

l'attimo effimero

è il mio cane che si sveglia

e, guardandosi intorno, sbadiglia.


                                                        Diogene senza l'anima?

ps: "le malerbe della fortuna" è un racconto di Ernst Junger.



martedì 15 gennaio 2013

UTOPIA RANDAGIA-

"Nell'evoluzione di tutti gli artisti, il germe delle opere successive è sempre contenuto nelle prime. Il nucleo intorno al quale l'intelletto dell'artista costruisce la propria opera è il suo io. L'unica influenza che io abbia mai avuto sono io stesso."        (Edward Hopper)

"Gli adolescenti avvertono dentro di sè una segreta e speciale grandezza che lotta per esprimersi. E quando cercano di spiegare questa cosa, istintivamente portano la mano al cuore: non è un indizio significativo?" (Joseph Chilton Pearce, Evolutions End)

"E' dunque questo che chiamiamo vocazione: la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo?" (Josephine Baker)

"Io non mi evolvo: io sono." (Pablo Picasso)

(tutti citati in: James Hillman, Il codice dell'anima)

 Un discorso analogo a quanto scritto qui sotto sulla musica, vale per qualsiasi ambito educativo, e in generale per qualsiasi ambito dell'arte, del sapere, delle innumerevoli attività umane.

"Tout ce que le monde a fait de meilleur/ca vien de là, juste pour le plaisir", "tutto ciò che il mondo ha fatto di migliore/viene da qui, giusto per il piacere", cantavano un bel po' di anni fa gli Zebda, gruppo franco-algerino, in una canzone contro ogni forma di fondamentalismo o di fanatismo.

Mi sembra il principio fondamentale di ogni successo, di ogni buona e utile attività umana, di ogni progetto destinato a produrre qualcosa di buono, il segreto di ogni forma di genio, di ogni grande artista, o in generale di chiunque abbia fatto qualcosa di significativo nella storia del genere umano.

La scuola ci insegna il Dovere -imparare a memoria elenchi infiniti di nozioni di cui ci sfugge il significato ultimo, imparare meccanicamente teorie a pappagallo - o imparare altrettanto meccanicamente e a pappagallo a copiare, a fare cose che non sfiorano neanche di lontano la sete infinita di Vita, di autenticità, di vero, di viscerale bellezza che rode la nostra anima.

E così, nella maggior parte dei casi è la vita adulta: ci sovrasta il Dover Essere, la Competizione, il dover dimostrare di valere di fronte agli occhi del Giudice esteriore o interiore, la Performatività, il Dover-raggiungere-standard-di-Produzione "adeguati". Produci-consuma-crepa-

ma il genio che è in ognuno di noi in questa maniera viene schiacciato, incatenato, azzittito, messo in punizione in un cantuccio e lasciato a morire d'inedia, assiderato, dimenticato, abbandonato, negato, picchiato.

il genio cresce ovunque l'individuo sia lasciato libero di fare nient'altro che quello che gli dà piacere, con i suoi modi, i suoi ritmi, le sue forme e la sua forma specifica di follia, direbbe Hillman, cioè d'ispirazione, anche con le stranezze, le ossesioni e le specifiche manie che sono parte integrante di questa ispirazione, il suo speciale linguiaggio magico, la sua maniera di esistere, unica, irripetibile e geniale. "Il suo marchio speciale di speciale disperazione", direbbe Faber, ma non necessariamente ha da essere disperato, 'sto canto irriducibile della nostra Anima!

L'Arte, per esempio, è necessariamente un'esperienza bastarda, randagia, al di fuori di un codice predefinito, un inseguire un destino di cui solo l'individuo conosce i segreti, un destino strappato all'anonimia meccanica dalla potenza, dalla prepotenza del dàimon dell'artista, che lo chiama, lo sfida, lo tormenta, gli impedisce di allinearsi a codici non suoi, imposti dall'esterno, gli impedisce di acquietarsi e rinunciare al proprio enigma, lo chiama, lo trascina, lo ferisce, lo dilania fino a far nascere il fiore del suo Genio.

Ma mi piace seguire un filo associativo che neanch'io so dove va a parare, perciò, a proposito di bastardi e randagi, voglio scrivere qualche riga su una splendida conferenza che ho sentito ieri sulle dinamiche e la comunicazione nei branchi di cani randagi, con il vago presentimento che qualcosa c'entri.

Splendida conferenza, dal titolo appunto Esperienza randagia, tenuta da Michele Minunno, educatore cinofilo, che ha studiato da vicino e ripreso numerosi branchi di cani randagi nel sud Italia, dove il fenomeno è comune.

Più di tutto mi ha colpito il discorso di Minunno a favore dei branchi randagi, chiaramente nel caso che non mettano in pericolo sè stessi o altri. Nella maggior parte dei casi, queste "famiglie" di cani sono perfettamente adattate al territorio e ai suoi abitanti, umani e canini, e si gestiscono perfettamente, sono molto tranquilli - se incontrano altri cani sanno perfettamente come regolarsi: sono i nostri cani d'appartamento e di città, che hanno parzialmente perso la capacità di comunicare e di confrontarsi liberamente con gli altri, e per questo sono così aggressivi, iper-eccitati, e riproducono l'ansia dei loro padroni innervosendosi, spesso, all'incontro con altri cani sconosciuti.

I cani liberi sono diversi: se incontrano cani sconosciuti, mettono in gioco le loro sviluppatisime capacità comunicative: si studiano, s'abbaiano un po', si annusano, si allontanano, sbadigliano, marchiano il terriorio, si riallontanano, si riavvicinano, finchè trovano un equilibrio. Sono molto più tranquilli dei nostri cani, e sanno sempre come regolarsi, seguendo sapientemente codici di comportamento e di comunicazione istintivi che portano al naturale "ordinamento", fluido, spontaneo e non imposto, di ogni individuo. Minunno possiede un cane che è stato per cinque anni "capo" di un branco di randagi: è un cane eccezionale, su cui non funziona nessuna forma di controllo, non sa fare nemmeno il "seduto" - eppure in questo caso il controllo è completamente inutile, perchè si tratta di un cane capace di adattarsi con estrema tranquillità e grandissima funzionalità a qualsiasi situazione, da solo, spontaneamente.

I cosiddetti "capobranco" non hanno comportamenti aggressivi, è sufficiente la loro presenza e la loro autorevolezza per creare ordine e affiatamento nel branco.

I cosiddetti "cani dominanti", invece - detti così dalla nostra ignorante cultura nevrotica cittadina - cioè cani aggressivi, sempre tesi alla competizione, sempre iper-eccitati, mettono in atto un comportamento da cane adolescente, che deve sempre dimostrare di valere di più in quanto insicuro - e se questo comportamento è presente in cani adulti è indice di una profonda insicurezza, debolezza, sofferenza, carenza di capacità comunicative "adeguate".

I personaggi più divertenti, comici di questi filmati sono: un lupo cecoslovacco adolescente, non randagio, che si trova sempre comicamente in bilico fra bisogno adolescenziale di fare il gradasso, e il confronto con questi cani randagi, molto più sgamati di lui, che, anche se spesso di taglia molto più piccola, finiscono sempre per fargli abbassare la cresta. E poi: quello che Minunno chiama il "vice-sindaco" del paesino dove sono stati girati i filmati: un piccolo simpatico bassotto, che si fa rispettare da tutti, e "gestisce" l'intera vita sociale canina del paese, a cui tutti chiedono di "metterci una buona parola" se hanno bisogno di qualcosa, che se ne scorrazza sempre da una parte all'altra del paese per i suoi innumerevoli impegni sociali. La cosa che colpisce è che il "vice-sindaco" è un cane sempre tranquillo, rilassato, che non si tende , non si stressa mai per niente e si adatta a qualsiasi interlocutore, e deve il suo ruolo alle sue abilità sociali e comunicative, estremamente affinate, alla sua estroversione, simpatia e socievolezza, si potrebbe dire, e non certo alla sua aggressività.

Ne conseguono due cose: 1) nella maggior parte dei casi, è assurdo prendere questi cani, perfettamente inseriti nel territorio e con i "vicini" canini e umani - e rinchiuderli in un canile, un lager in cui probabilemte resteranno rinchiusi tutta la vita;

2) comicissimamente appare, chiara e limpida, l'analogia fra la società dei cani e la società degli esseri umani.

Le società moderne metropolitane sono società di adolescenti insicuri, tutti tesi e stressati dall'idea di competizione, tutti terrorizzati dall'idea di poter non "valere" agli occhi degli altri, tutti sempre iper-eccitati (e in più, frenetici), tutti costantemente, meccanicamente incastrati nella modalità aggressiva, nervosa, cinica come modalità di base nel proprio rapporto col mondo e con gli altri (iper-aggressivi, e in più anche repressi).

Un lupo adulto non abbaia mai. E' un verso da lupo cucciolo, o adolescente, insicuro, che ha bisogno di fare la voce grossa per richiamare l'aiuto del branco. Un lupo adulto non ne ha bisogno, non ha bisogno di dimostrare la sua forza, proprio perchè è estremamente sicuro della sua forza.

La società degli esseri umani di oggi è invece una società di adolescenti che abbaiano in continuazione, senza fermarsi un attimo, senza una pausa di rilassamento realmente umano in cui ricominicare a tirare un reale respiro, senza un momento di una risata realmente franca, realmente affratellante, lasciando perdere le cazzate, lo stress e la competizione ininterrotti, inutili.

Dietro alle facce sgargianti di top-manager, modelle-vamp, impiegati cinici, alternativi fighetti, pompati cocainomani palestrati, o donne in carriera senza scrupoli, si apre l'abisso di anime perse, alla deriva, senza un perchè, senza una filo di poesia che gli sgorghi a fiotti imprevisto dal cuore, persone che hanno perso il contatto con la propria Anima, il proprio dàimon.







Al mondo serve un'utopia randagia!

 

 - che ci liberi dalle catene del Dover-Apparire  e ci permetta di reincontrarci, nel mondo, con lo sguardo libero da pregiudizi e la sapienza trasparente, serena, tranquilla, rilassata, aperta alla comunicazione, di anime randagie, bastarde, senza niente da dimostrare, senza tic da imporre o ideologie da difendere, senza gabbie-doveri in cui auto-immolarsi o con cui schiavizzare altri, senza stress meccanico da propagandare come "forza" (hahahahahahhaah!!!!!!!!) con niente da perdere e tutto da guadagnare nello stare al mondo insieme agli altri, seguendo ciò che ad ognuno dà piacere, gioia, allegria, divertimento, benessere, realizzazione, felicità, aritmica soddisfazione bastarda non-allineata, ognuno a stretto contatto fedele col proprio istinto, libero, sano, forte, vivo, rilassato, e con la voce della propria anima, liberata da fardelli di iper-razionalità e dal peso oppressivo di dover squadrare sempre da ogni lato in maniera mutilante l'enigma inquieto del proprio esserci indefinibile.

Gli animali, questi fratelli oscuri e leali di mistero, possono essere i migliori maestri per questo.






























Foto: Sacrilegio, "Nel nonpensiero/del suo bel muso nero"

Nella foto: Sgrinchomannus.

Il titolo della foto sono due versi di una poesia di Diogene senza l'anima?

domenica 13 gennaio 2013

CONTRO IL FASCISMO MUSICALE.

Fascismo musicale è l'applicazione alla musica della logica cartesiana, aristotelica, basata sul principio di identità, o di non-contraddizione, o, detto in termini contemporanei, principio di realtà.

Vero/falso.

Che diventa: brutto/bello.

Bravo/incapace.

Stonato/intonato.

Giusto/sbagliato.

O anche: di mio gusto/ non di mio gusto.

Il fascismo musicale è onnipresente, invade la mente anche dei più "alternativi" appassionati di musica sperimentale. Perchè lo stesso concetto di genere - per non parlare del punto di vista razional/opinionistico "io sono appassionato di tal genere" - è già fascismo musicale.

La musica è un'altra cosa.

"Desiderii infiniti
 e visioni altere
 crea nel vago pensiere,
 per natural virtù, dotto concento;
 onde per mar delizioso, arcano
 erra lo spirito umano,
 quasi come a diporto
 ardito notator per l’Oceano."

                                          (Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento 
                                            sepolcrale della medesima)

E' quel mare aperto, indefinito, di suono, di magma sonoro informe, quel gioco libero di rumori avventurandosi nel quale scompare ogni determinazione, ogni semplificante contrapposizione, ogni facile dualismo, ogni verità, ogni falsità, nella pura libertà dell'immaginazione.

C'è più autentica musica nel puro cazzeggio aritmico divertito di rumori casuali che non nel più eccelso pezzo musicale diligentemente eseguito in maniera tecnicamente perfetta, e meccanica.

Per questo, fra l'altro - a volte, stufi dei mille amplificatori musicali che ci attorniano dappertutto, ci mettiamo ad ascoltare semplicemente il casuale rumore del vento - musica sublime, e superiore perchè avulsa da qualsiasi giudizio, volontà o intenzione umane.

Qualsiasi esibizione musicale capace di far veramente vibrare e fremere le corde dell'animo umano partecipa di questo mistero: la musica non ha a che fare con scale, pentagrammi, tecnica, solfeggio, ma è un dàimon, un duende che ti rapisce e si impossessa di te, tecnica o non tecnica, è il dàimon che suona o canta, non il musicista - è qualcosa che trascende la volontà e la personalità del musicista e ne guida prepotentemente l'ispirazione. Oppure, come direbbe Garcia Lorca, è un duende con cui il musicista ingaggia un duello mortale. O infine, può essere un puro gioco di sperimentare cazzuto. In ogni caso, è qualcosa che trascende la tecnica e la stessa volontà del musicista. E' qualcosa anzi, che l'eccessiva attenzione alla tecnica e alla teoria non fa che bloccare.

La musica ha più a che fare con la magia, col sovrannaturale, con l'ispirazione poetica, col mistero di abissi/spazi sconfinati che si aprono in noi senza che che lo vogliamo, con l'enigma del nostro istinto più selvatico, selvaggio, animale, incatalogabile, non razionale, e infine col puro libero gioco tanto per giocare.

Le scuole di musica dovrebbero partire dal puro gioco di suoni e rumori e ritmi - perchè quella è la base, e forse l'essenza - della musica.

Dopo molti anni a non fare altro che giocare, a caso, tanto per divertirsi, allora, se ne hai voglia, puoi dedicarti a studiare la tecnica di uno strumento - ma sempre giocando, d'istinto, con l'approccio di un jazzista analfabeta dei primi del novecento a New Orleans. Allora ci può essere Musica.

La Musica, più di tutto, è superamento del meccanicismo, della logica binaria, del giudizio raziocinante.

Ma tecnica, teoria e giudizio critico sono espressioni della meccanica, della logica, del giudizio.

La Musica è per Schopenhauer, immediata rivelazione della volontà a sè stessa.

La Musica è Mistero, e sulla Musica, certo intesa in senso viscerale, animico, erano basati molti Misteri nell'antichità.

Ricordo che a 17 anni ho formulato questo pensiero:

"Mi capita, di sentire delle canzoni, senza ricordarmi di chi sono. Mi capita anche di non ricordarmi neanche quale giudizio ho formulato in passato su di esse. In questi casi, la musica mi evoca sensazioni e emozioni assolutamente indefinite, pure, puramente sensibili, senza traccia di un giudizio razionale. Poi mi ricordo l'autore della canzone e scompare la magia e l'indeterminatezza."

Un possibile punto di partenza per cercare di uscire dal fascismo musicale.

(la musica è - sentire - e non sapere a cosa collegare la sensazione, non andare a guardare, lasciare l'indeterminato nell'indeterminato, e il vago vagare libero nell'in-definito, il finito sbrindellarsi e cominciare a danzare libero nell'in-finito selvaggio, selvatico, enigmatico, tamburellante, casuale, forestico, animale, animico, senza controllo, senza categoria, senza giudizio, senza giudice-)

sabato 12 gennaio 2013

Ritorneranno le quattro stagioni!

http://www.youtube.com/watch?v=Ia7CNAte3Dw&feature=youtu.be

ps: il titolo è preso a prestito dall'omonimo libro di Mauro Corona, che niente ha a che vedere con l'argomento del video... a parte un comune sentimento di rispetto, amore e venerazione verso la natura, e un sottile filo di speranza (nel caso del video invece un torrente in pienadi speranza) ancorato alla fiducia nell'antica alleanza fra gli uomini e la loro Madre...

venerdì 11 gennaio 2013

Dai "Pensieri" di Leopardi.

"XXVII.

Nessun maggior segno d'essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita."

                                                                                                             (Giacomo Leopardi)


martedì 8 gennaio 2013

"La Bottega dei Suicidi" e l'eresia dell'entusiasmo di vivere.






"La bottega dei suicidi", ultimo film di Patrice Leconte - e suo primo film d'animazione - è chiaramente un film jodorowskyano.

Non certo perché assomigli ai film di Alejandro Jodorowsky, ma perché è una chiara, superba esemplificazione delle sue teorie psicologiche.

In una metropoli contemporanea (Parigi? Milano?) tutto ormai è grigio, spento, senza senso: i suoi abitanti, tristi larve svuotate di esseri umani, si trascinano stancamente per le sue strade buie senza un reale motivo, senza uno straccio di sogno o entusiasmo, senza nessuna voglia di vivere o respirare, i volti incavati segnati da paure prive ormai di un oggetto, esili fantocci sconfitti schiacciati da fantasmi senza nome, trafitti da una rassegnazione esausta, oltre il nichilismo verso il semplice incenerimento di qualsiasi desiderio o slancio o sussulto anche casuale di vita, verso la putrefazione dell'anima, il completo oblio di un qualsiasi ricordo di un lontano senso.

I suicidi aumentano ogni giorno. 

Ma perfino suicidarsi, in questa cupa Metropoli del Dover-Essere, del Vietato Essere, è vietato.

O, perlomeno, suicidarsi in pubblico. L'Apparenza - Ciò Conta - dev'essere salvaguardata, e chi si suicida per strada - molti, moltissimi - ricevono come unica reazione dell'apparato pubblico una multa ficcata a forza nella bocca del suicida da una volante subito accorsa - e che subito si dilegua.

Per risolvere i problemi di questi cittadini stanchi di vivere ma che giustamente preferirebbero evitare multe postume, né certo vorrebbero intralciare il traffico, c'è la Bottega dei Suicidi: un negozio fornitissimo, assolutamente legale, anzi fornito di regolare licenza, dove si può trovare qualsiasi strumento - dai più ordinari ai più originali - per liberarsi definitivamente di una vita percepita ormai come un peso inutile - ma rispettando pur sempre doverosamente il comune senso del pudore, ponendo fine ai propri giorni nel proprio privato alveo, nascosto agli occhi di chi, pur condividendo magari l'assunto filosofico di base del suicida, potrebbe trovare sconveniente una morte violenta in pubblico, sotto un'auto o giù da un ponte. La vita non ha senso, ma le forme, almeno quelle, per Dio! - non vanno assolutamente dimenticate - siamo o non siamo pur sempre un continente civile???!?

I clienti si aggirano attoniti, incuriositi, affascinati fra le moltissime chincaglierie letali del fortunatissimo esercizio, molto alla moda. Alcuni acquistano la prima cosa che gli viene proposta dai gestori, tutto gli sembra indifferente - altri invece sembrano affascinati dall'abilità dialettico-commerciale della coppia proprietaria dell'attività, e seguono con interesse e quasi con occhi che brillano  i loro discorsi sul "veleno, che è una scelta molto femminile - tutto sommato assomiglia a un profumo, no?" o sulla katana giapponese che "è molto virile", sull'estetica dei prodotti, alcuni incisi a mano, sull'essere "all'ultima moda" di alcune soluzioni. L'apparenza e il consumismo seguono le persone fino al loro salto nel buio. Tutti poi si preoccupano del prezzo: "Mah, mi sembra un po' caro..." ma sono rincuorati dallo slogan "Trapassati o rimborsati!".

Ma ecco l'elemento psicogenalogico, o jodorowskyano.

Cosa meglio di una famiglia, una coppia che, anche con l'aiuto dei figli, un bambino e una bambina, gestisce un'attività il cui core-business è la negazione della vita, la disperazione, e fa questo perché segue una tradizione familiare inaugurata da un bisnonno che aprì il negozio nell'ottocento, venerato come una specie di santo - una famiglia che ha fatto dell'assioma che la vita è triste, disperata, senza senso non solo il fulcro, il centro dell'ideologia familiare, della religione familiare - ma addirittura lo scopo di tutta la vita, anche professionale, un assunto da promuovere e difendere nel mondo, alla cui fortuna è legata la stessa fortuna materiale della famiglia; cosa, dunque, più di questo, può rappresentare il concetto jodorowskyano di albero genealogico, cioè il fatto che ogni individuo eredita molto di più che non semplicemente geni e influenza ambientale dalla famiglia, ma un'intero intreccio di malattie, nevrosi, sogni imposti, demoni nel sangue, superstizioni, blocchi, follie, paure, angosce, imposizioni, ammonizioni, plagi, false ambizioni, paranoie immaginarie, mostri psichici di vario tipo, divieti, sabotaggi, valori da venerare, idoli, pesi millenari, millenarie sconfitte che si ripetono sempre identiche nella storia dell'albero genealogico, oppressioni, ceppi, catene psichiche, ragnatele psichiche, offuscamenti, credenze obbligatorie, incapacità compiaciute, miserie ereditarie che vanno al di là dell'influenza di genitori e altri parenti effettivamente conosciuti, ma si ereditano misteriosamente anche da antenati vissuti secoli prima?

La stessa Bottega mi sembra una magnifica rappresentazione dell'albero genealogico: una casa/negozio molto grande, e piena zeppa di ogni sorta di orrore, paccottiglia mortifera di ogni tipo, catalogata, messa in bella mostra su scaffali immensi, un Museo degli Orrori ricchissimo e estremamente vario, di cui però andare fieri, messo come diaframma fra la casa e il mondo.

Bellissima anche la scena in cui una rapida carrellata mostra una parete infinita con le foto grottesche e disperate dei clienti già trapassati. Ad un livello simbolico profondo, mi sembra che invece questa parete rappresenti proprio gli antenati dell'albero.

E anche qui - in questa famiglia così ortodossamente ligia ai suoi doveri di disperazione - arriva la pecora nera: che è come dice Jodorowsky, la persona che nasce in un albero genealogico ma è diversa: non si allinea, non accetta i dogmi familiari, si ribella, e lo fa perché qualcosa di più forte, e non minimizzabile, incoercibile, incontenibile, lo divora e gli impedisce di conformarsi: un artista in una famiglia di ragionieri o di banchieri, un rockettaro in una famiglia di benpensanti che hanno la musica classica e l'opera come culto, un filosofo radicale in una famiglia estremamente cattolica, o chessò, un genio della boxe in una famiglia di intellettuali sedentari che detestano attività fisica e qualsiasi cosa che richiami anche di lontano una forma di lotta e di violenza, o un poeta in una famiglia di fisici teorici, o un fisico teorico in una famiglia di letterati.

Nel caso del film, nasce un bambino felice. Un tipo allegro, che ride sempre, ha sempre voglia di giocare e divertirsi, vede sempre tutto in positivo, nonostante l'ambiente in cui è nato.

I genitori sono sconsolati: non sopportano l'allegria e l'ottimismo di questo bambino "disobbediente alle leggi del branco" (De Andrè) e lo rimproverano e mortificano continuamente, creando spesso una forte delusione nel bambino, che però non si arrende e ogni volta si tira su, pensa a qualcosa di bello e continua a cercare di portare allegria in questa famiglia di venditori-di-morte.

Il bambino cresce e la sua vergognosa diversità non accenna a diminuire: è sempre più allegro, anche se ha dei momenti di profondo sconforto per la immodificabile, rassegnata tristezza della sua famiglia (e della sua città).
Ma non si arrende, non vuole, non si può arrendere. Il suo dàimon, direbbe James Hillman, glie lo impedisce.

Anche questo mi sembra molto jodoroskyano: la pecora nera non sceglie semplicemente la via della ribellione, del seguire un'altra strada (via che rischia di finire per riprodurre semplicemente le stesse identiche cose in un altro paese, o in un'altra veste ideologica) ma sceglie una via molto più impegnativa e risolutiva: quella dell'affrontare i problemi nella famiglia, non allontanandosi dalla famiglia.

Il bambino, coraggioso e determinato, non vuole arrendersi all'evidenza, e decide che, insieme ai suoi amici, deve assolutamente far qualcosa per cambiare la sua famiglia e la sua città.

La soluzione è semplice ma efficacissima: insieme ai suoi amici, e con l'aiuto dello zio di uno di loro, che fa il meccanico, portano davanti al negozio un'auto dotata di un impianto stereo ultra-professionale con casse esterne potentissime: molto semplicemente, le nostre teppe ribelli accendono un'assordante musica da discoteca, fragorosa vitale ma con chitarre elettriche arrabbiatissime, di fronte al negozio, a tutto volume.

Questa è la scena più geniale del film, dal punto di vista simbolico, psicogenealogico: la casa trema, a ritmo, sembra poter crollare da un momento all'altro, i clienti assordati non capiscono cosa succede, la madre urla impazzita, la sorella adolescente prima sbalordita poi invece comincia a ballare con un ragazzo sconosciuto, di cui si innamora. Le boccette di veleno, gli acquari con i piranas e tutte le altre preziosissime chincaglierie nichiliste cadono da tutte le parti, sfracellandosi a terra. Alla fine, il negozio è ancora in piedi, ma tutta la merce è completamente distrutta.

Il finale: la Bottega viene trasformata in una creperia "Au Bons Vivants"! La persone della famiglia cambiano, cominciano a ridere di più, ad avere voglia di vivere, a non vedere tutto nero. La figlia sposa il ragazzo conosciuto durante il "crollo", che è bravissimo a fare le crepes.

Il nostro eroe è più felice che mai.

Anche la conclusione è jodorowskyana.

Si tratta del tema dell'albero luminoso.

Cioè del fatto che nell'albero genealogico, oltre agli spettri, malattie, blocchi, etc... di cui sopra, vengono tramandate anche capacità, talenti, forme di genio, di creatività, di amore, segreti positivi appannaggio dell'albero in base ai quali è possibile avere successo, sogni, utopie, luce, speranza, coraggio, passioni, saggezza, determinazione, sapienza, sostegno per la realizzazione di sé stessi e della propria unicità.

Mi viene da dire: la maniera per neutralizzare l'albero dell'oppressione millenaria e far emergere invece l'albero luminoso non può che essere - e qui mi richiamo a Jodorowsky ma soprattutto a Hillman - una sola: ascoltare quello che Hillman chiama il proprio dàimon: e cioè la propria diversità, la propria irriducibile, non-omologabile, unica, irripetibile forma specifica di ispirazione, di sogno, di visione, di talento, di scopo dello stare al mondo. E' uno scopo che - direbbe Hillman - è già contenuto nella ghianda della tua anima fin da prima della tua nascita.

Mi sembra probabile. 

Jodorowsky penso aggiungerebbe: se ascolti e segui il tuo dàimon, in maniera inesorabile, mai arresa, inarrestabile, viscerale, se ti affidi a lui completamente, allora i tuoi antenati da nemici diventeranno misteriosamente i tuoi più potenti alleati.

p.s.: splendide le canzoncine!!!! In puro stile Nightmare before Christmas!!!! Direi dello stesso livello. E ottimamente tradotte e cantate anche in italiano!!!!!!!!









P.s.: In realtà Jodorowsky, da quello che ho capito, non consiglia necessariamente la soluzione dei problemi nella famiglia, ma dice che - nella famiglia o per conto proprio - bisogna affrontare e risolvere blocchi e nodi irrisolti andando alla radice: invece il semplice scegliere una "ideologia", un "gusto", un insieme di opinioni o di abitudini contrapposte a quelle della famiglia di origine non è risolutivo. Traduco in termini miei, filo-Hillmaniani: non è necessario neanche fare chissà quali strani e costosi seminari di terapia psicogenealogica: basta ascoltare il proprio dàimon - e non la semplice contrapposizione a tutti i costi allo "stile" familiare: il proprio dàimon ha uno "stile" suo, unico nella storia dell'universo, segue la sua via, inesorabile e incondizionato: che poi questa via sia più o meno - in apparenza - lontana o vicina allo stile della famiglia, è completamente irrilevante.

Werner Herzog: Ognuno per sé e Dio contro tutti.

                       "La meraviglia è il sentimento filosofico per eccellenza." (Platone)

                       "Ma ciò che distingue il filosofo vero dal falso, è questo: nel primo
                         il dubbio si risveglia fin dalla prima vista del mondo reale, nell'altro
                         invece non sorge che dalla lettura di un libro, di un sistema già bell'e
                         fatto." (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e 
                         rappresentazione)

                         "E non riesco a immaginare che Dio abbia creato tutto dal niente come voi mi dite!"
                                                                                                                               (Kaspar Hauser)



In Italia gli hanno dato il titolo "L'enigma di Kaspar Hauser", ma il titolo originale è "Jeder fur sich und Gott gegen alle", cioè appunto: ognuno per sé e Dio contro tutti.

Storia della mente-tabula rasa di un uomo che è stato tenuto prigioniero in una cantina fino a venti-venticinque anni, e che perciò, una volta liberato, vede il mondo come un enigma incomprensibile, con gli occhi stupefatti, dubitanti, scettici, interrogativi di uno straniero che non capisce gli usi e costumi degli esseri umani, le loro strane abitudini e credenze e certezze, e non capisce lo stesso mondo della natura, sebbene gli sembri più amico, ospitale e in un certo senso più sincero, perché è sgombro da pregiudizi e categorie prefissate: confrontandosi con esso lo sguardo è libero, e la mente anche, il campo è sgombro da interpretazioni rigide e codificate, per gli altri ovvie, per lui assurde.

La natura gli sembra anche meno malvagia, si sente più a suo agio con gli animali, che si avvicinano a lui senza paura, mentre, con i suoi occhi non schermati di straniero al mondo, gli appaiono senza nessuna velatura o ottundimento sociale la malvagità degli uomini e la brutalità delle sue istituzioni, la Chiesa, le norme sociali, la condizione di asservimento delle donne per esempio (il film è ambientato nell'ottocento).

Non solo Kaspar, non abituato al mondo, non riesce a capire: ma si rifiuta anche di far finta di capire, si rifiuta categoricamente di accettare ciò che non capisce.

Questo tipo di sguardo, al di là del fatto che Kaspar abbia o meno mai letto in vita sua un solo libro di filosofia, è l'autentico sguardo filosofico: che precede e va al di là di qualsiasi discorso tecnico-filosofico, è la filosofia prima della filosofia, dello studio della filosofia, della storia della filosofia, della filosofia come branca del sapere, accademica e dotata di un suo specifico linguaggio, che molto spesso rischia di finire per ridurre i filosofi in mestieranti, saccenti e autocompiaciuti, aristocratici operai del sapere.

Ma invece ciò che veramente conta, per riflettere filosoficamente (cioè criticamente) sul mondo, ciò che è alla base di tutta la filosofia e che è alla fine l'unica cosa veramente importante di tutto il pensiero filosofico - sta tutto nello sguardo "alieno" e incapace di comprendere, ma anche di adattarsi senza comprendere, e desideroso in maniera smaniosa di comprendere, di Kaspar Hauser, della sua mente tabula-rasa che vede tutto per la prima volta e si domanda di tutto: perchè? che senso ha? e: ma sarà veramente così come lo spiegano tutti?

Uno sguardo di meraviglia irriducibile - che è il luogo della riflessione filosofica - ma anche il luogo della poesia, della profezia, dell'intuizione, dell'artista, del mistico, del visionario, del canto spontaneo, della distrazione rapita - di un rapporto con l'universo certamente condizionato, ma non addomesticato, dalle convenzioni sociali - un rapporto in cui l'individuo è libero, il suo sguardo è a diretto contatto con la natura, gli altri, le grandi questioni esistenziali - senza la mediazione di rassicuranti certezze convenzionali - il suo sguardo è puro - perché non parte dalle risposte già concluse - il suo cuore, la sua mente e la sua anima comunicano con il grande spazio aperto dell'universo alla deriva, indeterminato, indefinito - popolato di vita, sogni, emozioni e domande - e in cui le risposte dogmatiche rivelano il loro volto di spettri agghiaccianti.